La delicatezza dei gesti
Ci accomuna un handicap: essere guardati 'in modo strano'
Cari, carissimi amici, buon inizio di anno. Ora prestate attenzione a ciò che vi circonda e ditemi cosa vedete: un divano, magari un tavolo, delle sedie, dei quadri appesi alla parete. Guardandovi attorno accarezzate con gli occhi quei tanti oggetti che abbelliscono e rendono più comoda la vostra esistenza. Ciò che vi circonda è parte di voi, ne avete cura, fra quelle mura care vi sentite sicuri, sdraiati sul vostro divano, probabilmente non vorreste essere in nessun altro posto.
Ora spostate, anzi, spostiamo il pensiero oltre quelle mura e prendiamo coscienza della moltitudine di genti che popolano la terra. Culture, usi e costumi diversi hanno un elemento che li accomuna: l’uomo. Quell’uomo che ad ogni latitudine ha un corpo e una mente da custodire, ma che spesso, troppo spesso, non ha neanche il minimo indispensabile per sopravvivere. Ho un amico con un nome illeggibile Yambame Yendoube, per tutti Ibrahim. Ha un viso dolce ed espressivo, lo guardo e vedo un giovane uomo riflessivo, rispettoso di chi ha di fronte, occhi curiosi di conoscere il mondo, uno sguardo attento verso tutto ciò che lo circonda.
Ci accomuna un handicap: essere guardati “in modo strano”, sguardi che ci scrutano e ci giudicano, e nella maggior parte dei casi, non ne usciamo bene. Io handicappato, lui nero, tutti e due abbiamo difficoltà a parlare (lui con il tempo la colmerà io no!), tutti e due oggetti di sguardi pietosi, io sempre handicappato, lui immigrato, tutti e due considerati poco evoluti, io sempre handicappato, lui primitivo. Io sono nato in Sicilia, lui nel Togo.
Nati in due angoli della terra distanti tra loro, cresciuti nutrendoci di usi, costumi, tradizioni e religioni diverse, ci siamo conosciuti comunicando attraverso il contatto dei nostri piedi. Desidero raccontarvi questa esperienza: Ibrahim è inserito in una comunità per minori immigrati e grazie ad un progetto di laboratorio teatrale ho avuto il piacere di conoscere un gruppo di ragazzi originari dell’Africa, che hanno deciso di rischiare la vita spinti dal desiderio di ampliare i loro orizzonti, troppo limitati in gran parte della terra natia.
Ci siamo incontrati nell’Auditorium del centro sociale di Ramacca, qualcuno stava in disparte, qualcuno cercava un senso in quello che facevamo, qualcuno “stava al gioco”, uno di questi era Ibrahim. Dopo avermi osservato per un po’ e aver capito che non mi sarei tirato indietro, seduto di fronte a me, ha cominciato ad esplorare il mio corpo con i piedi.
In questo contatto ho sentito la delicatezza dei gesti, il rispetto della mia persona, l’annullamento della diversità; da allora, ogni volta che ci incontriamo, vedo nel suo sguardo la stessa delicatezza e lo stesso rispetto. Mi trovo in perfetta sintonia con le parole di papa Francesco: “Ogni volta che le persone si ascoltano tra loro umilmente e apertamente, possono emergere i valori e le aspirazioni comuni. La diversità non sarà più vista come una minaccia, ma come fonte di arricchimento”.
Mi rattrista il fatto che, dopo millenni di spostamenti e migrazioni di popoli, ancora un grande uomo come il Papa, senta pressante la necessità di fare un simile appello.
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