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Pazzi per il palco

Andrea Rossi
Pubblicato il 20-02-2025

Il Teatro Patologico è arrivato sul palco dell'Ariston

A pochi giorni dalla partecipazione alla terza serata del 75° Festival di Sanremo, seguita da circa 15milioni di telespettatori, Dario D'Ambrosi, fondatore e direttore del Teatro Patologico Onlus, ha tenuto a ringraziare Carlo Conti, ponendo fine alle polemiche nate sull'atteggiamento tenuto dal direttore artistico nei confronti dei suoi ospiti.

«Ce ne fossero altri 1000 di Carlo Conti - ha commentato -, che per mesi ha seguito il lavoro del Teatro Patologico. Considerando anche che la nostra presenza in scaletta era di 5 minuti ed invece il nostro intervento è durato 10 minuti, praticamente il doppio. Carlo Conti è stato particolarmente accogliente e sensibile anche durante le prove, carinissimo e sempre sorridente con i nostri ragazzi disabili, trasmettendo tutto il suo affetto e il suo calore. E visto che nessuno ci aiuta: le istituzioni, il governo, chi dovrebbe davvero sostenerci; ben venga gente come Carlo Conti, che dà spazio e offre una vetrina così importante come il Festival di Sanremo a una Compagnia che, nonostante abbia girato il mondo con i suoi spettacoli ed il suo messaggio di inclusione, fa davvero fatica ad andare avanti senza i necessari sostegni economici ed istituzionali».

Riproponiamo di seguito l'esperienza che D'Ambrosi, che lavora con la malattia mentale da oltre 40 anni, aveva condiviso con noi in un'intervista del luglio 2023 per la rivista San Francesco Patrono d'Italia.

Nel 1992 nasce l’Associazione Teatro Patologico, realtà che si occupa di lavorare con ragazzi affetti da disturbi psichici di diversa natura. Attraverso un percorso di teatroterapia, in cui la malattia mentale si incontra con l’arte, i ragazzi si trovano faccia a faccia con le proprie emozioni, imparando a convivere con le difficoltà che vivono quotidianamente insieme alle loro famiglie. Negli anni il Teatro Patologico ha realizzato tour nazionali e internazionali, vinto premi, e proposto modalità innovative nell’approccio alla disabilità psichica. Ne abbiamo parlato con l’attore e regista Dario D’Ambrosi, ideatore e fondatore del movimento.

Dario, cos’è il Teatro Patologico, come e perché nasce?

Il Teatro Patologico nasce da un’esperienza che ho fatto all’Ospedale Psichiatrico Paolo Pini di Milano dopo l’approvazione della legge 180 del 1978 (più nota come Legge Basaglia). Sono stato internato per tre mesi in questo ospedale. Quando ne esco capisco che tutte le storie dei malati che ho conosciuto avevano una forte emozione da raccontare, e che attraverso il teatro si potevano far conoscere alla gente. Così ho cominciato a narrare nei miei spettacoli di questi malati che avevo conosciuto. “Tutti non ci sono”, “I giorni di Antonio”, “La trota”, sono spettacoli iniziali che raccontano il problema dell’emarginazione, della malattia mentale, dell’inclusione, e soprattutto della difficoltà di questi pazienti che trovavano all’esterno del manicomio. La legge 180 fu assolutamente straordinaria, ma non aveva creato le strutture adiacenti che la potessero sostenere. Infatti, dopo la sua approvazione morirono quasi due milioni di malati di mente: molte famiglie non li volevano più in casa, altri avevano interrotto le cure farmacologiche, alcuni morirono sotto i ponti o abbandonati per strada. Dopo questa esperienza ho pensato che l’idea di creare un movimento teatrale fosse un modo per aiutare questi emarginati, questi “ultimi” della società. E devo dire che il tempo mi ha dato ragione, perché dapprima ho iniziato a lavorare con tanti gruppi di cooperative, associazioni, volontariato che operavano con malati di mente, poi da quattordici anni, per fortuna, ho uno spazio stabile del Teatro Patologico a Roma dove tengo dei corsi di teatroterapia per ragazzi con problemi psichici. Nel 2016 abbiamo fondato il primo corso universitario al mondo – presentato alle Nazioni Unite – di Teatro Integrato dell’Emozione, rivolto a giovani disabili mentali e fisici in collaborazione con l’Università degli Studi di Roma Tor Vergata: ora è una realtà di riabilitazione che, attraverso il teatro, dà dei risultati straordinari e aiuta tantissimo persone con varie patologie, da quelli autistici a quelli con sindrome di down, dai bipolari agli schizofrenici e psicotici. È ormai una realtà molto importante non solo in Italia ma in tutto il mondo, perché portiamo con spettacoli in tournée ragazzi disabili – soprattutto in paesi in cui persone come loro sono ancora immobilizzati su letti di contenzione o in camicie di forza. A questi “studenti” riconosciamo anche un titolo di laurea come operatori teatrali e dimostriamo, attraverso la rappresentazione teatrale, il loro potenziale emotivo e di inclusione. Siamo stati a Tokyo, a Londra dove abbiamo vinto il Wilton Prize per il miglior spettacolo dell’anno, all’Onu, a Rio de Janeiro, a Johannesburg. Abbiamo fatto quattro continenti portando l’Italia come rappresentante di un movimento rivoluzionario nei confronti della disabilità psichica.

Da quanti ragazzi è composta attualmente la compagnia?

La compagnia è composta da venti persone, ma attualmente abbiamo sessanta ragazzi in cura attraverso la teatroterapia suddivisi in due gruppi.

Nel corso del tempo i ragazzi sono cambiati o sono sempre gli stessi?

Diciamo che i ragazzi della compagnia stabile sono quelli un po’ più “anziani”, con maggiore esperienza teatrale. Ogni anno, comunque, entrano membri nuovi, soprattutto dopo il documentario “Odissea”, realizzato da Domenico Iannacone, andato in onda su Rai 3 con un successo strepitoso in tutta Italia. Tante famiglie ci chiedono di portare i figli. Il problema, però, è che abbiamo bisogno di aiuti, siamo poco sostenuti economicamente e sopravviviamo con le donazioni. Allo stesso tempo abbiamo anche bisogno di accogliere quanti più ragazzi possibile.

Sono le famiglie che si rivolgono a voi o siete voi che andate ad incontrare i ragazzi nelle loro realtà?

Sono le famiglie che si rivolgono a noi oppure sono le Asl, in particolar modo i dipartimenti di igiene mentale, che indirizzano le famiglie da noi.

Quindi anche la famiglia ha un ruolo in questo percorso che intraprendono i ragazzi.

Assolutamente sì, perché segue il ragazzo. Quando arrivano da noi, i ragazzi sono completamente disarmati, in condizioni pessime, e le famiglie con loro, perché il senso di disperazione è molto grande. Poi è una gioia immensa vedere che, dopo poche settimane, si cominciano a allargare i sorrisi sui volti di queste famiglie: molti mi dicono «Dario, non so se mio figlio o mia figlia diventerà un attore o un’attrice, ma so che da quando viene al Teatro Patologico abbiamo ricominciato a dormire la notte». Questo ti fa capire l’importante lavoro di riabilitazione psichica che viene svolto.

Viste le situazioni che le famiglie vivono e con cui voi vi interfacciate, come si riesce a gestire queste persone, come si tiene unito un gruppo con queste problematiche?

Ci sono degli esercizi che ormai ho introdotto e sperimentato attraverso dei protocolli scientifici, come l’esercizio dello specchio, quello delle tre sedie o quello dei quattro angoli. Sono esercizi in cui ci si confronta con la loro emozione, con la loro patologia, con la violenza e la solitudine. Sono tutti quegli aspetti che sembrano difficili da gestire, ma attraverso queste pratiche riconoscono la propria patologia e piano piano riescono a gestire il proprio dolore, a condividere e convivere con esso, così da poter apprezzare i momenti più gioiosi e positivi della loro emozione.

Ti va di raccontare un caso in particolare di qualcuno che ha fatto questo percorso?

C’è stato Paolo che quando è arrivato da noi non guardava mai in faccia nessuno, fissava solo il pavimento. I suoi genitori mi avevano detto che lui non sapeva cosa fosse il pianto, non aveva mai pianto dalla sua nascita. Di questo caso sarebbe stato molto interessante farne un protocollo scientifico da presentare ai convegni di medicina e psichiatria, perché attraverso il nostro lavoro ha conosciuto il pianto e ha alzato la testa. Adesso Paolo ha un sorriso straordinario, ti guarda fisso negli occhi, ti parla guardandoti, ti sorride. I genitori sono rimasti piacevolmente sconvolti, ma ancora più dei genitori lo psichiatra che l'aveva in cura. Il medico ha detto che in quel teatro doveva essere successo un miracolo per Paolo. In dieci anni di cura non aveva mai visto dei progressi del genere.

Come è cambiata la tua carriera professionale da quando lavori con questi ragazzi?

Tantissimo, ho iniziato la mia carriera da attore facendo tanti film, da “La Passione di Cristo” di Mel Gibson a “Romanzo Criminale” di Michele Placido, passando per l’interpretazione di tante figure religiose: padre Pio, don Milani, don Bosco. Insomma, ho fatto veramente molta fiction, però da quando ho aperto questo corso universitario ho abbandonato completamente la professione da attore, ho dovuto rifiutare moltissimi film. Questo mi dispiace perché sarebbe stata un’entrata economica che avrebbe potuto sostenere anche il Teatro Patologico, ma purtroppo non riesco più a portare avanti tutto.

Penso che questa esperienza ti abbia cambiato non solo professionalmente ma anche personalmente.

Assolutamente sì, mi ha cambiato totalmente. Ormai sono assorbito da questi ragazzi. Come dico a tutti i docenti che scelgo, bisogna avere carisma, come un missionario che va in Africa: si deve avere la stessa umanità, la stessa fede, lo stesso cuore per lavorare con questi ragazzi. Se non hai queste caratteristiche e volontà di missione è molto difficile condividere il lavoro di teatroterapia.

I momenti difficili non mancano.

Chi ascolta – o legge come in questo caso – il racconto immagina tutto come un'esperienza molto bella e gioiosa, ma durante l’anno ci sono, ovviamente, momenti difficili. I ragazzi possono avere delle crisi epilettiche e non sai mai quando si riprendono, altri hanno crisi schizofreniche molto forti, con episodi di autolesionismo che spaventano e agitano gli altri. Per gestire anche momenti così difficili serve una fede molto grande.

Come si riesce a gestire tutto questo come percorso lavorativo? Serve un certo distacco?

Sì, anche questo è un aspetto molto importante. Devi riuscire a dare tutto te stesso, perché sono anche loro a volere che tu lo faccia, ma allo stesso tempo devi avere la forza per mantenere un minimo di distacco da tutte queste patologie che rimbalzano sia a livello emotivo che a livello mentale.

Quali sono le prospettive future? Che obiettivi ti, e vi, siete prefissati?

Quello che spero è di poter girare il più possibile il mondo per portare questo messaggio: che tutti i paesi liberino questi ragazzi da condizioni di detenzione. Ho visto malati tenuti ancora su letti di contenzione o in camicia di forza, e posso assicurare che sono persone con patologie non più gravi di quelle dei ragazzi con cui lavoriamo. Vorrei far capire a più persone possibile che questi ragazzi sono il sale della vita, come diceva Gesù. Sono parte della bellezza dell’umanità, se riusciamo a scoprire quella parte di bellezza che c’è in loro. È come se avessero un diamante nascosto nel loro corpo che va scoperto, com’è stato per Alda Merini, Van Gogh, Dino Campana. Attraverso il lavoro di teatroterapia sto trovando in ognuno di loro questa pietra preziosa, questa bellezza che si può far conoscere al mondo intero e soprattutto alle famiglie che hanno perso la speranza per i propri figli disabili.

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