francescanesimo

Venerdì Santo, via Crucis e il mistero della passione della morte di Gesù di padre Michelini

Redazione online Ansa - ANGELO CARCONI
Pubblicato il 12-04-2017

Il mistero della passione e morte di Gesù viene celebrato dalla Chiesa il giorno del Venerdì Santo in molti modi, con molti linguaggi, per investire – si potrebbe quasi dire – il meglio delle proprie energie spirituali allo scopo di comunicare un unico messaggio: colui che era stato riconosciuto Messia è morto davvero. Non si tratta – come si legge in alcuni testi gnostici del II secolo, o anche nel Corano – di una “morte apparente”, e Gesù non rientra nella categoria dei “quasi vivi” o dei “quasi morti”. La descrizione della morte del Messia che ci danno i vangeli, anzi, accentua il realismo di quanto avvenuto.


Lo scandalo di quella morte – non si attendeva che un messia dovesse morire (come aveva ricordato addirittura Pietro, il primo che si scandalizza, a Gesù: «Pietro prese Gesù in disparte e si mise a rimproverarlo»; Mc 8,32) – non viene occultato dalla Chiesa, che ora, anzi, lo ripropone con forza per comunicarne quel significato che ancora salva. I modi principali coi quali viene ancora narrata la morte del Messia sono l’azione liturgica e le forme della pietà popolare come la Via Crucis.


La liturgia del Venerdì Santo. Non potendoci soffermare su tutta la celebrazione, sottolineiamo almeno tre momenti di questa: la prostrazione del sacerdote sotto la croce, la lettura del Passio e la preghiera universale. Il sacerdote, iniziando in silenzio la celebrazione, si prostra davanti all’altare. Si tratta di una delle rare volte in cui viene compiuto questo gesto, col quale si esprime anche fisicamente lo stare di tutta la Chiesa ai piedi del crocifisso. Se ci pensiamo, come nella tradizione giudaica si dice, durante la celebrazione della Pasqua, che ogni generazione di Ebrei deve pensarsi come la generazione che ha attraversato il Mar Rosso ed è stata liberata dall’Egitto, noi cristiani possiamo dire che ogni nostra generazione di credenti si può ritrovare sotto quella croce. Siamo tutti là, e ora tutta la comunità si ritrova prostrata davanti al crocifisso. Ma poi si proclama, per la seconda e ultima volta nella Settimana Santa, la versione completa del racconto della Passione (in questo caso, secondo il vangelo di Giovanni).

La Chiesa rilegge quelle lunghe pagine nella loro interezza, dall’inizio alla fine, solodue volte all’anno, la Domenica delle Palme e il Venerdì Santo (e senza la parte della risurrezione). Poiché si tratta del cuore del vangelo ci potremmo anche domandare se non sia il caso di moltiplicare la proclamazione di questo racconto, ma la Chiesa ha capito che non è possibile farlo, perché è molto lungo, e – cosa più importante – non può essere spezzato: ogni elemento del racconto è anche logicamente collegato all’altro, e in una certa sequenza. Forse potremmo anche dire che se davvero ci fermassimo più spesso a contemplare la croce, non potremmo reggere di più quel dolore. Per questo, tra l’altro, dobbiamo condividerlo, mediante un’ulteriore forma, in qualche modo vicina alla liturgia: la pietà popolare, di cui diremo subito. Ma nella celebrazione liturgica del Venerdì Santo emerge anche un altro elemento, quello della ricchezza delle preghiere dei fedeli. Mai come in questo giorno la preghiera universale è davvero tale: con dieci intenzioni, formate ciascuna di due parti, la Chiesa osa domandare “tutto” al Padre, per mezzo del Crocifisso che offre la sua vita.


Ma la liturgia del Venerdì Santo non esaurisce i modi in cui la Chiesa esprime lo scandalo della croce, lo interpreta e lo propone come messaggio di salvezza. Un altro mezzo è quello che papa Francesco chiama la «spiritualità popolare», o la «mistica popolare» (Evangelii Gaudium 122-126). In quella modalità, non vuota di contenuti, che sono invece espressi più per via simbolica che in modo semplicemente razionale, trovano un loro posto adeguato anche «quegli sguardi di amore profondo a Cristo crocifisso» (EG 125) che fanno parte della pia pratica francescana della Via Crucis, o le varie processioni del Cristo morto, o ancora i piccoli gesti semplici della pietà e devozione popolare, magari compiuti privatamente.


Tutti questi registri comunicativi dicono che la morte di Gesù ci riguarda e ha a che fare ancora oggi con le nostre vite. Da una parte, perché a morire è un “giusto” (cf. Mt 27,19), e quindi in quel crocifisso innocente si ritrovano tutti gli innocenti, dai bambini della Siria, ai poveri del Terzo Mondo; dall’altra, perché quella morte è stata compresa da Paolo e dai vangeli come liberazione dai nostri peccati. La morte del Messia non è però l’ultima parola. Si devono attendere tre giorni, ma sono proprio questi il vero compimento di tutta la sofferenza di Gesù, dell’odio che si è riversato contro di lui, della sconfitta della sua crocifissione.

Le celebrazioni del Venerdì Santo non sono finalizzate a loro stesse, e non avrebbero alcun senso se i cristiani non conservassero un’altra memoria, quella di un annuncio che ha permesso poi di rileggere e comprendere tutto quel dolore: “È risorto!”.

padre Giulio Michelini ofm

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