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Negli ultimi 25 anni abbiamo cancellato un decimo della natura selvaggia

Redazione online EPA/SVEN HOPPE
Pubblicato il 30-11--0001

Negli ultimi 25 anni abbiamo cancellato un decimo della natura selvaggia presente sulla Terra: giungla, deserto, savana, tundra, tutte quelle aree sostanzialmente libere da interferenze umane, si stanno riducendo sempre più. Le cause le conosciamo: deforestazione, sfruttamento minerario, trivellazioni. Dal 1993 a oggi sono scomparsi 3,3 milioni di chilometri quadrati, due volte l'Alaska. Un terzo di questa che gli scienziati definiscono "catastrofe" si è verificata in Amazzonia. Per un altro 14% ha contribuito l'Africa centrale. I dati, ancora una volta allarmanti sulla sorte del Pianeta, arrivano da uno studio pubblicato su Current Biology e guidato dai ricercatori australiani dell'Università del Queensland.

Ma l'aspetto più interessante è forse la proiezione per il futuro: se il tasso di distruzione della wilderness continuerà ad essere quello attuale, scrivono gli autori, entro il 2100 non ci saranno più zone selvagge sulla Terra. Perché, nonostante tutto, c'è ancora qualcosa di incontaminato. Gli studiosi australiani hanno censito queste zone, che sommate rappresentano il 23% delle terre emerse, per un totale di 30,1 milioni di chilometri quadrati.

E soprattutto hanno trasformato questi numeri in una mappa della wilderness sopravvisuta. Le zone superstiti sono concentrate in Nordamerica, Amazzonia, Africa Sahariana, Asia Centrale, Siberia e Australia centrale. Ma accanto a queste zone rappresentate in verde, c'è un proliferare di macchie rosse: le aree selvagge distrutte negli ultimi vent'anni. I ricercatori di Brisbane hanno anche fatto un censimento della natura protetta per legge con l'istituzione di Parchi nazionali.

Moreno Di Marco è tra gli autori dello studio. Laurea e dottorato all'Università La Sapienza di Roma, dal 2015 è a Brisbane dove si occupa di scienze ecologiche. "Il nostro gruppo di ricerca" spiega Di Marco "aveva realizzato in passato una mappa digitale del Pianeta che registrava punto per punto la human footprint, l'impronta ecologica che lasciamo sull'ambiente. Questa volta abbiamo usato il procedimento inverso, ci siamo chiesti: in quali pixel della mappa la human footprint è nulla? Quelli sono i punti ancora selvaggi della Terra, ma perché abbiano un senso ai fini della conservazione delle specie, le aree di wilderness devono avere una estensione minima di almeno 10mila chilometri quadrati: sono le zone del planisfero che abbiamo colorato di verde".

Torna in mente l'ultimo, provocatorio, appello di Edward O. Wilson, il decano dei biologi americani: "Si trasformi metà del pianeta in riserva naturale". Ma anche questa misura estrema potrebbe non bastare. "Una volta che sono stati compromessi i processi biologici di un certo ecosistema è impossibile ripristinarli" avverte il professor James Watson, che ha guidato la ricerca australiana. "Contaminata un'area non c'è verso di farla tornare selvaggia".

Di Marco e molti dei suoi colleghi sono in questi giorni a Honolulu dove si sta svolgendo il World Conservation Congress. "Il quadro che emerge sullo stato di salute della Terra è preoccupante" spiega il ricercatore italiano. "Ma dobbiamo saper anche trovare il lato positivo: il nostro studio, per esempio, che il 23% degli ecosistemi è ancora incontaminato. Dobbiamo agire prima che sia troppo tardi. Certo è difficile dire al Brasile di non fare in Amazzonia ciò che noi europei abbiamo fatto per 2000 anni con le nostre foreste". (La Repubblica-Luca Fraoli)

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