Le visite dei pontefici
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Il Servizio Missionario Giovani, nato dal sogno di Ernesto Olivero di trasformare un arsenale di guerra in un Arsenale di Pace
Quando il Sermig – Servizio Missionario Giovani – nasce a Torino a metà degli anni Sessanta il mondo vive anni di profondi cambiamenti e disordini. La popolazione greca e quella turca si scontrano a Cipro, Nelson Mandela viene incarcerato in Sudafrica, gli USA si preparano ad intervenire in Vietnam l’anno successivo, lo stesso in cui viene assassinato Malcolm X e arrestato Martin Luther King. Mao Tze-Tung preparava la grande rivoluzione culturale in Cina mentre in occidente ci si preparava alle contestazioni studentesche. In questo contesto Ernesto Olivero fonda l’Arsenale della Pace nell’ex arsenale militare cittadino. Una scelta coraggiosa, nata da un sogno condiviso con poche persone che nel tempo sono diventate migliaia e migliaia. Sessant’anni dopo il Sermig ha raggiunto i quattro angoli del mondo con l’Arsenale della Speranza di San Paolo, in Brasile, l’Arsenale dell’Incontro di Madaba, in Giordania, e per ultimo l’Arsenale dell’Armonia a Pecetto Torinese. Nel mezzo tanti incontri, testimonianze, mani tese per fare di un sogno una bellissima realtà. Di questa storia abbiamo parlato con Rosanna Tabasso, Presidente, al fianco di Ernesto Olivero fin dai primi passi.
Qual è la missione del Sermig?
Essere segno di speranza a fianco di chi ha perso il senso del vivere, di chi convive con fragilità e fatiche, con gli affaticati e oppressi del nostro tempo. Proprio per dare segni concreti di speranza a quanti avviciniamo nelle nostre città ci siamo impegnati su molti fronti e in tanti servizi diversificati, ma la radice di tutto è una sola: essere semplicemente cristiani, vivere secondo il Vangelo, entrare sempre di più nella sua che si incarna nella nostra umanità. Le missioni concrete poi possono anche cambiare, rispondere a nuovi imprevisti e situazioni che si presentano alla porta, ma la radice è e dovrà rimanere questa. Se ripenso alla nostra storia, il gruppo degli inizi era nato dal sogno di sconfiggere la fame nel mondo e impegnarsi in modo concreto contro le ingiustizie, le disuguaglianze, per costruire passo dopo passo un mondo migliore. Strada facendo, abbiamo capito che questo non bastava, che la povertà non era solo un fatto materiale. E la missione è diventata provare a riaccendere la speranza assopita nel cuore dell’uomo. Senza fanatismi, senza trionfalismi, ma stando accanto alle persone.
Nel 2024 il Sermig ha compiuto 60 anni. Quanto e come è cambiata la sua natura nel tempo?
Una storia di 60 anni è anche una storia di cambiamenti. È inevitabile. Quando siamo nati, nel 1964, eravamo davvero un piccolo gruppo di giovani, quasi tutti ventenni, inesperti. Avevamo ideali puliti e sinceri in un’epoca di profonda contestazione, dov’eri quasi obbligato a schierarti, ad assecondare logiche di militanza. Succedeva nella società, ma anche nella Chiesa. Non abbiamo mai voluto accettare questa logica, non perché non avessimo le nostre idee, ma perché sentivamo che i nostri sogni erano troppo grandi per essere incasellati. Avevamo l’ingenuità di voler incontrare tutti, di suscitare una sana passione per il bene. Siamo partiti così, per molti anni senza una sede, aiutando i missionari che ci contattavano. I nostri progetti di sviluppo sono nati in questo modo. In quel tempo ci siamo però accorti di poter crescere anche come gruppo e fu proprio lì che Ernesto Olivero, il nostro fondatore, ci spronò a consumare i gradini dei saggi. Furono anni di incontri con grandi figure, testimoni dell’epoca, persone credibili che aprirono anche in modo inaspettato il nostro cuore e la nostra strada.
Ricorda un incontro in particolare?
Penso soprattutto a due incontri decisivi. Il primo con il sindaco di Firenze dell’epoca, Giorgio La Pira. Ernesto lo incontrò negli anni Sessanta e ne rimase affascinato. Era l’epoca della Guerra fredda, segnata dalla logica del riarmo e dell’odio. Parole come “dialogo”, “pace”, “fraternità” sembravano davvero un’utopia. La Pira però vedeva oltre e ci fece innamorare della profezia di Isaia, che parla di un tempo in cui le armi non saranno più costruite e i popoli non si eserciteranno più nell’arte della guerra. Parole chiarissime, di cui ci innamorammo. Un altro tassello lo aggiunse papa Paolo VI. Ernesto lo incontrò a Roma in un dialogo a tu per tu. Lui voleva portare le istanze di tanti giovani che incontravamo, che contestavano una Chiesa percepita come ricca, distante dalla gente, non immersa nei problemi. Il Papa raccolse quella provocazione, ma la rivolse a noi come un mandato: «Fate voi quello che chiedete a me. Sono d’accordo, ma a volte i cristiani non mi obbediscono. Spero che da Torino, terra dei santi, parta una rivoluzione d’amore». Un politico santo e un Papa si erano sbilanciati. Cosa significava tutto questo? Lo capimmo quando scoprimmo i ruderi del vecchio arsenale militare di Torino. Vedemmo in quel luogo di morte la possibilità di provare a vivere noi un riflesso della profezia di Isaia, nella logica della rivoluzione d’amore indicata dal Papa.
A quel punto i progetti iniziali cambiarono?
Più che cambiare, si allargarono. Non rinunciammo mai all’obiettivo iniziale, ovvero abbattere la fame nel mondo e contribuire allo sviluppo dei più poveri nel mondo con progetti e aiuti materiali, ma adesso avevamo anche un luogo da riconvertire. Erano più di 40mila metri quadrati. Un impresario dell’epoca ci disse che sarebbero serviti miliardi. Noi non avevamo una lira, ma come diciamo sempre: avevamo un sogno. Il resto venne da sé. La notizia che un gruppo di giovani volesse trasformare un arsenale di guerra in Arsenale di pace diventò contagiosa. Da subito, migliaia e migliaia di persone di tutte le età, di ogni religione, cultura e orientamento si misero a disposizione per aiutarci. Iniziò in quel momento quel grande movimento di bene e di Provvidenza che attraverso la restituzione di tempo, risorse e professionalità ci ha permesso di trasformare un luogo di morte in una casa di vita, sempre aperta, a servizio delle persone che bussano alla nostra porta. Non è avvenuto per magia ma attraverso il lavoro di anni. Siamo entrati il 2 agosto del 1983 e l’ultimo pezzo di Arsenale è stato riconvertito nel 2019: 36 anni di vita, di lavoro, di tanta preghiera, ma anche di molte difficoltà. Abbiamo camminato in una sproporzione, ma ci siamo fidati e abbiamo capito che in fondo è proprio la sproporzione il terreno in cui agisce Dio.
Come si trasmette il messaggio dell'Arsenale della Pace in un tempo segnato dai conflitti come questo?
Sin dall’inizio abbiamo respinto l’etichetta di pacifisti. Ciò che cerchiamo di vivere e di comunicare è la convinzione che il mondo di oggi ha bisogno di pacificatori. La differenza è sostanziale. Un pacificatore sa che la pace non è una parola o uno slogan da gridare nelle piazze, magari contro qualcuno. La pace, come l’amore, è un fatto di giustizia che passa dalle scelte di vita dei singoli. La prima domanda da fare è semplice: cosa sono disposto a fare io per la pace? Bisogna cominciare da sé stessi, dai propri ambienti, dalle proprie relazioni e poi a salire. In fondo anche le guerre sono una ferita relazionale tra Stati.
Come si prevengono?
Oggi, con conflitti aperti anche vicino a noi, la risposta rischia di suonare ingenua. Ma al di là di ogni retorica, crediamo che occorra credere nel dialogo: sedersi a un tavolo comune pronti a cambiare qualcuna delle proprie idee per il bene comune, rilanciare sforzi che forse sono venuti meno, insistere per fare davvero del Diritto internazionale lo strumento di risoluzione dei conflitti, rilanciare il ruolo della politica e della diplomazia, mettere in agenda percorsi graduali di disarmo. Questo è il metodo per tendere alla profezia di un mondo in cui le armi prima o poi non saranno più costruite. Dobbiamo ripartire da qui anche se sembra di andare controcorrente. Non importa: è proprio quando è più buio che si vede meglio anche una piccola luce.
La natura del volontariato si è evoluta nel tempo, anche a causa di un radicale cambiamento nello stile di vita delle persone. Quale ruolo e che peso mantiene ancora oggi per voi?
Senza volontari gli Arsenali del Sermig chiuderebbero in tre giorni. E non è una battuta. Per dare un’idea, solo a Torino intorno all’Arsenale della Pace gravitano almeno mille persone, giovani e adulti, che con modalità diverse restituiscono quello che sono e che hanno. Senza di loro sarebbe impossibile tenere aperti i nostri servizi 365 giorni all’anno. Una presenza così però non si improvvisa. Serve una formazione permanente, la disponibilità a mettersi in gioco, a camminare insieme. In passato c’erano condizioni diverse, è vero, ma il valore della gratuità, del dono di sé, l’essenza del nostro essere persone rimane sempre attuale e centrale. Bisogna forse trovare nuove forme di espressione, ma occorre sempre rilanciare questi valori. Cerchiamo sempre di accendere le motivazioni profonde di chi ci incontra, far capire che una delle sfumature della felicità è fare la felicità degli altri.
Quello della speranza è un tema centrale nella storia e nelle attività del Sermig, tanto da dare il nome all'Arsenale della Speranza di San Paolo. Come si traduce in voi e per voi il messaggio di questo Giubileo?
Come dicevo, la speranza è il cuore del nostro carisma. Anche la nostra Fraternità ha questo nome. Siamo Fraternità della Speranza: persone di tutte le età e di ogni stato di vita che condividono la stessa responsabilità. La speranza è uno sguardo capace di trasfigurare la realtà, di vedere anche nel male il bene che si può compiere, nel fango la rinascita di un uomo, nella notte il sole non ancora spuntato. Speranza è trovarsi di fronte a un dolore o una lacrima e non dire mai: «Che pena!», ma «Cosa posso fare?», «Chi posso essere per te?». La speranza non è buonismo, non è un sentimento zuccheroso, ma la certezza che in ogni caso il male non avrà mai l’ultima parola. Il Giubileo può essere un’occasione meravigliosa per tornare alle radici del cristianesimo, una storia inspiegabile senza la categoria della speranza.
Dal sogno di un singolo individuo, il Sermig è arrivato in tutto il mondo grazie al contributo di tante persone a vario titolo. È la testimonianza del fatto che il bene genera bene?
Ernesto ha avuto l’intuizione iniziale e il coraggio di partire, ma fin dall’inizio il suo è stato un sogno condiviso. Fin dall’inizio c’è stata sua moglie Maria, che ha accettato di allargare la dimensione della famiglia ad un progetto all’epoca incomprensibile, che ha preso forma strada facendo. Poi gli amici della prima ora, tanti che hanno avuto il coraggio di mettersi radicalmente in gioco. E poi c’è stato un popolo che nel corso degli anni ha raccolto il testimone. È vero, il bene genera bene. E posso dire che ognuno può entrare in questa logica. Negli anni Settanta partecipammo ad un incontro indimenticabile con frère Roger, fondatore della comunità di Taizè. Lui disse che è sufficiente un pugno di giovani per cambiare il corso della storia di una città, di un paese, di una Nazione, in definitiva del mondo. Ernesto e i suoi amici ci hanno creduto. Così possiamo fare noi oggi: crederci, darci un metodo e camminare insieme.
Oltre al Giubileo, quest'anno celebriamo gli 800 anni dalla stesura del Cantico delle Creature. Il Sermig e il Sacro Convento sono legati da tempo, con un gemellaggio nel 1997 alla presenza di Giovanni Paolo II. A rappresentare le due realtà erano Ernesto Olivero e fra Giulio Berrettoni. Quanto è attuale ancora oggi il messaggio di san Francesco?
Per noi Francesco è stato da sempre un riferimento. Nessuno lo aveva programmato, ma è stata un’emozione entrare nei ruderi dell’arsenale proprio il 2 agosto, Festa del Perdono di Assisi. Altrettanto emozionante il gemellaggio del 1997 e il ricordo indimenticabile di padre Giulio, un vero uomo di Dio. Francesco in qualche modo ci ha guidato in tanti passaggi della nostra storia. Il suo messaggio di pace, di dialogo, di semplicità e di radicalità evangelica è una bussola: continua ad orientare la vita di tanti che si ispirano a lui.
Uno sguardo anche al futuro. Quali saranno i prossimi passi?
Li scopriremo. Un proverbio brasiliano dice che la strada si apre camminando e noi lo abbiamo sperimentato tante volte. Non abbiamo programmato mai nulla, ma abbiamo sempre accettato di accogliere l’imprevisto. Bisogna solo essere disponibili, pronti a farsi interpellare e discernere i segni dei tempi. Ci è affidato questo tempo, un presente per nulla facile. Continuiamo a camminare! Il resto, come sempre, avverrà.
«Ora siete gemelli di Francesco»
Dal 27 ottobre 1997 la grande famiglia francescana e la piccola comunità di Torino si sono unite nel nome della fraternità e della pace, con un gemellaggio di intenti fra il Sacro Convento di Assisi e il Sermig.
Il legame è stato siglato, poi, davanti a Giovanni Paolo II il 10 dicembre 1997: «Ora siete gemelli di Francesco», disse il Papa in quell’occasione.
Tra le due realtà anche uno scambio di doni: il Sacro Convento ha donato al Sermig il Crocifisso che era custodito nel refettorio, e portava i segni del terremoto che aveva sconvolto la terra umbra ed Assisi. Il Sermig ha offerto al Convento il Tabernacolo: un forno, nel quale passavano componenti delle armi costruite nell’Arsenale della guerra.
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