societa

Ravasi: La centralità dell'uomo nella sofferenza

Gianfranco Ravasi Ansa - DAL ZENNARO
Pubblicato il 16-11-2020

Ogni vero dolore viene scritto su lastre di una sostanza misteriosa

«Ogni vero dolore viene scritto su lastre di una sostanza misteriosa al paragone della quale il granito è burro. E non basta un' eternità per cancellarlo». Così scriveva Dino Buzzati in un suo racconto. Su quelle lastre tutti abbiamo inciso una nostra testimonianza e non c' è cultura o religione che non si sia confrontata con questo macigno che opprime il cuore o le stesse membra. Non per nulla, uno dei grandi capolavori teologico-poetici, il libro biblico di Giobbe, si aggroviglia e arroventa attorno al nodo della sofferenza, non tanto per scioglierlo quanto piuttosto per mostrare che Dio stesso non può uscirne indenne. Non si dimentichi, infatti, che la genesi antica della stessa teologia fu proprio la teodicea, cioè lo sforzo affannoso di far coesistere Dio e il male.

A rappacificare questi due attori non basta, perciò, né il teorema della retribuzione (il binomio meccanico delitto-castigo), né l' etica della paideia greca formalizzata in un altro binomio assonante pathémata- mathémata, le sofferenze sono insegnamenti.

Non che queste e tante altre interpretazioni non contengano un germe di verità, ma esse non riescono a zittire l'urlo registrato, ad esempio, nei Salmi ove l'orante biblico aggredisce Dio reiterando ben quattro volte un interrogativo lancinante: «Fino a quando, Signore? Per sempre?» (13,2). È, quindi, naturale che la letteratura, la filosofia, la teologia abbiano sentito l'obbligo di accostarsi al letto del malato o al fianco del disperato, talora dispensando «decotti di malva», come impietosamente Giobbe liquida le argomentazioni degli instancabili suoi amici teologi.

Bisogna, però, riconoscere che altre volte quella vicinanza ha saputo creare calore e sciogliere qualche grumo di male; ha potuto decifrare alcune righe di quella «metafora» dell' esistenza umana che è la malattia, per usare il noto titolo del testo autobiografico di Susan Sontag; ha riacceso il lucignolo della speranza.

È ciò che testimoniano i due volumi che estraiamo dall'insonne testimonianza dei sofferenti e dei loro compagni di viaggio in questo cupo orizzonte, un «tunnel», come ha scelto di titolare Abraham Yehoshua il suo romanzo sull' esperienza di un malato di Alzheimer. «Attenti, però: la luce non è in fondo al tunnel, come solitamente si dice, ma in ogni passo che compiamo».

A usare questa immagine è Marco Garzonio, noto scrittore e giornalista, nel suo saggio-prefazione a un libro suggestivo, scritto a più mani e curato da un medico cattedratico, Giorgio Lambertenghi Deliliers, un testo che è una sorta di rievocazione di una figura indimenticata, il card. Carlo Maria Martini, arcivescovo di Milano dal 1979 al 2002. Il profilo del ritratto è, però, un po' inatteso, come reitera il sottotitolo: «medicina, sanità, ricerca e bioetica nel pensiero» del cardinale.

Non possiamo ora delineare il contributo dei vari interventi e delle appendici ove risuona anche la voce di Martini attraverso un articolo apparso proprio nelle pagine della «Domenica» del Sole 24 Ore il 21 gennaio 2007. Ed è significativo che allora essa si faceva sentire proprio su un territorio accidentato e di frontiera, come quello dell' ormai emblematico «caso Welby» (così come, altrove, sulle cellule staminali).

Sì, perché Martini non ha mai esitato a inerpicarsi anche su questi crinali taglienti, convinto che è necessario affacciarsi su entrambi i versanti, «pensando in modo aperto», come suggeriva al curatore del volume, quando era quasi alle soglie della morte e il suo stesso corpo diventava - come era accaduto anche a papa Giovanni Paolo II - un emblema vivente del tema, essendo colpito dal Parkinson.

Dalla molteplicità delle riflessioni presenti in queste pagine allineiamo soltanto alcuni spunti che sono simili ad altrettanti crocevia... (Sole24Ore)

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