religione

I benedettini: fuori dal mondo nel cuore del mondo

Alberto Fraccareta Pixabay
Pubblicato il 30-03-2021

Quali implicazioni ebbe il monachesimo nella società del tempo?

Il «pieno medioevo» è un concetto storiografico sorto in ambito tedesco e rimarca la centralità di un «gruppo di secoli» (X, XI e XII) in cui avviene un profondo cambiamento nella facies delle corporazioni europee di ogni ordine e grado. Arteria, punto di snodo tra «alto» e «basso medioevo» nel momento in cui artisticamente si avvicendano romanico e gotico, l' aggettivo «pieno» coincide con «centrale» o «classico»: evidenzia dunque quel culmine negli organismi politici e culturali che è impossibile eludere in sede di analisi storica (un po' come l' Atene del V secolo a. C. , per intenderci). Tra i diversi ingranaggi in metamorfosi, quali implicazioni ebbe il monachesimo nella società del tempo? Cosa accadde nel vecchio continente con il passaggio dall' assetto carolingio alla «poliliticità» - definizione di Ovidio Capitani -, ossia alla presenza di molti livelli istituzionali, tipica dei comuni? E che ruolo ha giocato l' ordine monastico nella rivitalizzazione di una civiltà indirizzata al dinamismo universitario e mercantile?

La risposta è semplice: le abbazie benedettine non soltanto furono all' avanguardia, ma trovarono soluzioni (geniali) ai problemi e alle variazioni che via via si andavano creando. Lo dimostra I castelli della preghiera Il monachesimo nel pieno medioevo (secoli X -XII) a cura di Glauco Maria Cantarella (Carocci editore «Frecce», pp.276, 26,00), volume collettaneo suddiviso in sette capitoli che racconta analiticamente lo sviluppo delle comunità germogliate dalla radice del santo di Norcia. Come scrive Cantarella nella nota introduttiva, il testo - allestito da una generazione di studiosi che lavora da decenni a stretto contatto - si occupa di esaminare «il monachesimo benedettino classico (Cluny, Monte cassino); le esperienze innovative dell' XI secolo (san Romualdo, san Pier Damiani, gli Avellaniti, i Camaldolesi, i Vallombrosani); la travolgente restaurazione/innovazione del monachesimo cistercense; la rappresentazione degli spazi vitali dei monaci».

Si parte da Cluny, nel saggio a firma dello stesso Cantarella, con i primi abilissimi abati: Bernone, Odone il teorico musicalela sua musica corale era costruita in modo da espellere "dai cuori degli ascoltatori qualunque desiderio diabolico"»), Maiolo e Odilone che si dedicarono alle riforme del convento cluniacense e all'«invenzione della verginità istituzionale» («non è da intendere come opposizione fra psyché e physis, ma semmai come una sottolineatura della physis, della corporeità: il monaco è tenuto al rispetto del proprio corpo e di quelli degli altri»). In quegli anni l' inventio è di rigore - ad esempio, la festa di commemorazione dei defunti ideata da Odilone nel 998 - ma non sono da meno i pericoli, le rivalità, il ridimensionamento. Enrico Veneziani entra nel merito delle vicende attorno al cenobio di Montecassino, alla luce delle relazioni con il papato: la collaborazione di Oderisio I, le incrinature con l' abbaziato di Ottone, le ingerenze, il vento di bonaccia, lo «scontro frontale» e lo scisma cassinese, le ritrattazioni, i Normanni.

Le peripezie di Fonte Avellana con il ruolo decisivo di Romualdo e Pier Damiani sono invece ricostruite da Umberto Longo. In particolare, la corrente trainata dai due santi appare come «una delle esperienze che hanno caratterizzato il mondo monastico italico dell' XI secolo»: il «sogno panmonastico» di Romualdo e l' eremitismo di Pier Damiani si sposano in favore di un'«istituzionalizzazione dell' intuizione». Così Camaldolesi e Avellaniti, ai quali si uniranno Vallombrosiani e Cistercensi nei capitoli redatti da Nicolangelo D' Acunto, Guido Cariboni e Francesco Renzi, si avviano a nuove forme di congregazioni che raffinano le «strutture insediative», i «funzionamenti istituzionali» tra radicalismo e incertezze. Emerge un quadro estremamente intricato ma al contempo esaltante: questi monaci, vicini e distanti dal contemptus mundi, torcono la vita per il collo, tra canti e orazioni hanno il tempo di mettersi all' opera come politici, poeti, gualchierai, speziali, agricoltori. Chi più ne ha più ne metta! Colpisce l' ardimento mistico -operaio dei Cistercensi guidati dal doctor marianus et mellifluus Bernardo di Clairvaux, fustigatore dell' opulenza, che li ispira a essere quasi dostoevskianamente « ». 

Persino nelle arti: come scrive Giorgio Milanesi nel capitolo conclusivo, «ben oltre la metà delle architetture, delle pitture e delle sculture di epoca pienamente medievale appartengono a contesti monastici». E ciò è reso lampante dalla crisi delle immagini alla loro accettazione («l' elaborazione teologica del rapporto tra visibile e invisibile»), dalla ricerca di un equilibrio spaziale fino all'«abate costruttore», Guglielmo da Volpiano, per arrivare a Sugerio e alla diffusione del gotico. La chiara atmosfera claustrale - simile al poema irlandese Buile Suibhne tradotto da Seamus Heaney, Sweeney Astray - e la creatività poietica, a partire dal roboante sistema onomastico, che si respirano nel libro, ci spingono indietro nel fulgore della verità storica verso un' età d' ingegnose fioriture, di deferente fervore, età originalissima e ancora capace di destare la nostra ammirazione. (Il Manifesto)

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