Dare da mangiare agli affamati
l'opera di misericordia che riporta alla fraternità
Quaresima, periodo di meditazione, ma non solo. Chiaro, infatti, è anche l’invito all’azione: rivedere la propria vita alla luce del Vangelo e cercare di approfondire la nostra relazione con Dio. L’invito da parte della Chiesa di soffermarsi sulle “Opere di misericordia” nel periodo quaresimale è un invito sempre attuale. “San Francesco patrono d’Italia” vuole ripercorrere con i lettori proprio queste “opere” alla luce del mondo contemporaneo cercando di rispondere alla domanda: come possiamo viverle nel nostro oggi?
La prima delle sette opere di misericordia corporale è dare da mangiare agli affamati, movimento del cuore del corpo che riconduce alla carità, all’amore. Un gesto che racchiude umano e divino: umano per gli aspetti che possiamo ben immaginare; divino, perché - in fondo - questa stessa azione non può non ricondurre nella memoria quella frase che Cristo pronuncia nel Vangelo di Matteo: “In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me”. E se l’azione di “dare da mangiare agli affamati” ci riconduce a questa frase evangelica, è possibile immaginare quanta ricchezza possa esserci proprio in questo semplice gesto di carità che da una parte ci lega al mondo presente, nella sua “pragmatica forma”; nell’altra, a una sorta di legame più profondo con Cristo, il Figlio di Dio.
La Storia ci insegna che, purtroppo, nel corso dei secoli forme di ingiustizia sociale che hanno determinato gravi squilibri nella distribuzione dei beni ci sono sempre state e tante ce ne saranno. Il nostro oggi, post-pandemia, segnato da una guerra insensata, ci presenta - ancora una volta - la stessa problematica sociale: la povertà. Troviamo sempre più evidenti squilibri sociali: basterebbe guardare alle hit-parade delle persone più facoltose al mondo per rendersi conto che la forbice tra poveri-poverissimi e ricchi-ricchissimi è sempre più ampia. Il consumismo è piaga, non per moralismo, s’intende, perché presenta dietro ben altro: accumulo di un “qualcosa” e di cose che, il più delle volte, possono far perdere il baricentro, sviandoci da quelli che sono gli aspetti essenziali della vita.
E, allora, cosa potrebbe significare “dare da mangiare agli affamati” oggi, nel nostro presente così contraddittorio? Il primo senso si potrebbe sì trovare nell’atto “pratico” di poter aiutare qualche bisognoso. Nulla di più vero e giusto. Ma ci si deve fermare a questo? Il condividere non può essere relegato solamente all’atto in sé del fornire cibo e acqua a qualcuno. Non si tratta di un’opera antropologica, non si tratta di un atto di giustizia sociale fine a sé stesso.
Ed è in questo caso che entra in gioco una parola-chiave che potrebbe darci una spiegazione ben più ampia: quella parola è fraternità. In una famiglia, molte volte assistiamo ad “atti di carità” che magari non hanno nulla a che fare con il donare materialmente il cibo al proprio fratello, alla propria sorella. Oltre ai “bisogni della pancia”, definiamoli così, ce ne sono altri ben più profondi. Una parola di speranza, un sorriso, un consiglio, un dialogo riesce a riempire quel bisogno “nascosto” che è presente in tutti: sapere di essere parte integrante di una realtà - in questo caso, una famiglia - e di poter essere considerato per la propria specificità, unicità. Se si allarga il concetto al mondo fuori dalle mura domestiche il discorso non cambierà poi così tanto.
Dare da mangiare agli affamati potrebbe divenire così un modo di offrire a tutti parole di speranza e di amore, oltre ai beni materiali. E, nel fare ciò, in fondo, anche noi potremmo essere saziati poiché tutti siamo bisognosi, tutti siamo nella stessa barca del mondo.
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