È bella ma non è di Francesco
L’equivoco storico sulla preghiera 'Absorbeat'
(di Felice Accrocca, dall'Osservatore Romano)
La preghiera Absorbeat è stata conosciuta dai più dopo che nel 1977, nella prima edizione delle Fonti Francescane, fu stampata — senza alcuna precisazione o avvertenza — tra gli scritti del santo di Assisi. Unendo le sue parole a quelle della «Preghiera davanti al Crocifisso», Marco Frisina l’ha poi trasformata in un delizioso canto, finendo per veicolarne il testo a un pubblico ancor più eterogeneo e favorendone così una diffusione ancora maggiore.
Il testo, sia detto a onor del vero, è indubbiamente bello ed efficace: «Rapisca, ti prego, o Signore, / l’ardente e dolce forza del tuo amore / la mente mia da tutte le cose che sono sotto il cielo, / perché io muoia per amore dell’amor tuo, / come tu ti sei degnato di morire / per amore dell’amor mio».
La preghiera compare ancora nell’ultima edizione delle Fonti Francescane, anche se in nota — attingendo alle osservazioni di Kajetan Esser — si precisa che in realtà risulta essere una «combinazione di testi patristici circolanti nel secolo XII che «non rivela alcun contributo originale di san Francesco e, contrariamente a quanto affermato dal Wadding, non viene attribuito al santo né da Ubertino né da Bernardino. Da quanto essi dicono si può tutt’al più concludere che Francesco ha conosciuto questa preghiera e ne ha fatto uso. Tutto il resto appartiene al regno delle congetture».
Uno studio recente di Daniele Solvi, pubblicato su Filologia mediolatina (volume 27, 2020, pagine 257-281), riprende la questione e dissipa, una volta per sempre, gli ultimi equivoci.
A menzionare la preghiera fu per primo Ubertino da Casale nella sua opera più famosa, l’Arbor vitae crucifixae Jesu, nell’ambito del quarto capitolo del libro V intitolato «Gesù serafino alato» (Jesus seraph alatus); da qui la trasse poi Bernardino da Siena, che la citò nel sermone LIX del «Quaresimale sul Vangelo eterno», dedicato alle stimmate di san Francesco. A dare vera notorietà alla preghiera fu però Luca Wadding, che l’accolse tra gli scritti del santo di Assisi da lui raccolti e pubblicati in volume autonomo nel 1623, precisando che Francesco l’avrebbe recitata sulla Verna, nel 1224, poco prima di ricevere le stimmate.
Da quel momento in poi la preghiera acquistò autorevolezza sempre maggiore, fino a essere inclusa nell’edizione degli scritti del santo curata da Leonard Lemmens nel 1904 e pubblicata dai padri editori di Quaracchi. Nel XX secolo il dibattito sulla sua autenticità ha continuato a fervere, attestandosi alla fine sulla posizione di Kajetan Esser, il quale ha escluso che Ubertino e Bernardino avessero attribuito il testo a san Francesco, concedendo tutt’al più che egli l’avesse conosciuto e utilizzato.
Solvi ricostruisce ora con chiarezza e competenza il dibattito e offre un quadro riepilogativo delle fonti della preghiera. Dall’esame se ne conclude che, mentre la sua prima parte si ritrova quasi identica nella Confessio theologica di Giovanni di Fécamp, nelle Meditationes dello pseudo-Agostino e nelle Orationes dello pseudo-Anselmo, «lo svolgimento di pensiero della Absorbeat ha un parallelo completo solo nello pseudo-Bernardo, che però presenta — al di là di pochi termini-chiave — una formulazione nettamente diversa». Per quanto attiene, invece, al contenuto e alla sua continuità o discontinuità con gli scritti autentici del santo di Assisi, il campo resta aperto, non potendosi dire una parola risolutiva né in senso positivo né negativo.
La parte più innovativa dello studio di Solvi è però quella relativa all’esame del passo di Ubertino, che è all’origine di tutta questa storia. Il capitolo Gesù serafino alato costituisce un piccolo trattato sulla stimmatizzazione di Francesco: questi — dice Ubertino — ardeva di così intenso amore per Dio, che tale amore finì per riverberarsi all’esterno con i segni che il Signore impresse sul suo corpo. Infatti, come il fuoco tende naturalmente verso l’alto, «così il fuoco del divino amore, consumando il cuore di Francesco e incendiando la sua carne, la infiammò e la configurò trascinandola nelle sue alte regioni». Così fu compiuto in lui quello che egli chiedeva avvenisse di sé: “Rapisca, ti prego, ...”.
Tuttavia, la frase introduttiva — tradotta, nelle Fonti Francescane, in «così fu compiuto in lui quello che egli chiedeva avvenisse di sé» — presenta, nell’edizione latina del 1485, alcune anomalie: Completum est in illo quod autem petebat se ipso; non si comprende infatti il senso di autem, che ha un valore comunque avversativo in un contesto dichiarativo, ciò che ha messo in difficoltà anche i traduttori, i quali hanno infine superato le asperità comportandosi come se quell’autem non ci fosse: non soltanto Feliciano Olgiati (e lo stesso Solvi che ne revisionò il testo) nelle Fonti Francescane, ma già Alonso Ortiz († 1517), che tradusse il testo su invito della regina Isabella la Cattolica: Fue conplido en él lo que ante pedia de sí mesmo (ed. L. Pérez Simón, Murcia 2007, pg. 1388).
In realtà, l’esame compiuto da Solvi sulla tradizione manoscritta rivela come i codici più antichi — in specifico, tre manoscritti trecenteschi (conservati a Marsiglia, Tolosa, Assisi) — in luogo di autem presentino la lezione Augustinus; la frase, in tal modo, risulta più chiara e sensata: «Così fu compiuto in lui [Francesco] quello che Agostino chiedeva avvenisse di sé». Non solo: si comprende pure che Ubertino non intendeva affatto attribuire il testo della preghiera all’Assisiate, ma citava Agostino convinto che le parole di quest’ultimo fossero in grado di descrivere anche la condizione interiore di Francesco. I guasti della tradizione manoscritta, visibili sia nell’edizione veneziana dell’Arbor vitae che nel sermone di Bernardino, indussero Luca Wadding ad attribuire la preghiera al santo di Assisi, dando in tal modo vita a un equivoco sopravvissuto fino a oggi.
Daniele Solvi ha quindi svelato l’arcano, chiarendo definitivamente le cose: la preghiera Absorbeat non è uno scritto di Francesco (ciò che si sapeva già), né è stata mai sulle sue labbra, un equivoco, questo, ingenerato da un’errata lezione dell’edizione del 1485. Ci resta l’essenziale, vale a dire una straordinaria preghiera (giunta fino a noi tramite i francescani), trasformata pure in un delizioso canto.
di Felice Accrocca, dall'Osservatore Romano
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