francescanesimo

Francesco, l'uomo dei sogni

Franco Cardini Archivio fotografico Sacro Convento
Pubblicato il 22-05-2021

Dice André Vauchez: “Nelle antiche e recenti biografie di Francesco d’Assisi si designa di solito sotto il termine ‘conversione’ il periodo che si estende dal suo ritorno da Spoleto, nell’estate del 1205, e la rivelazione finale, agli inizi del 1208, del genere di vita che sarà suo e dei suoi primi compagni” (A. Vauchez, Francesco d’Assisi. Tra storia e memoria,  trad.it, Torino 2010, p. 21).  

La via di Francesco alla scoperta del Cristo e di se stesso è quella provvidenzialmente indicata nei sogni che lo visitano alla vigilia della conversio,  che di essa sembrano almeno in una certa misura origine e fanno comunque parte: ma i differenti modi nei quali le fonti li presentano e i diversi contesti nei quali ciascuno di essi è inserito corrispondono a interpretazioni precipue, mai identiche e spesso abbastanza divergenti. Resta costantemente da valutare se e fino a che punto ciascuna fonte sia o meno indipendente dalle altre, oppure la qualità e l’intensità dell’eventuale dipendenza. 

Il celebre “sogno delle armi” (e della fanciulla, quando c’è), narrato in modi diversi da fonti differenti,  viene definito visio nocturna: ma tale espressione può indicare esclusivamente un sogno o qualificare invece anche (o in alternativa esclusività)  una “visione” ad occhi aperti? Quello del sogno è in generale un tema immenso, del quale è inutile qui tentare una qualche adeguata indicazione bibliografica. Per una panoramica di sintesi, chi voglia avere qualche notizia più precisa può comunque ricorrere al breve saggio di K. Panster, Dream in medieval saints’  lives: Saint Francis of Assisi, in “Dreaming”. 19, 2009, pp. 55-63.

  Tutte le fonti sono comunque d’accordo nel porre al centro di quei sogni  il conseguimento di qualcosa di cui la dignità cavalleresca è simbolo – e si sarebbe tentati di dirla alla provenzale, cioè alla trobadorica: senhal –, ma si differenziano e reciprocamente si discostano poi sui due elementi qualificanti di esso: le armi da una parte, la “donna” (domina o sponsa che sia). E sembra riaffiorare a questo punto lo schema della disputa, l’altercatio. Le armi sono sempre presenti: ma, se da sole rinviano alla sacra militia, possono alludere al combattimento come impegno esclusivamente guerriero – sia pure al servizio della fede – o come invece metafora della pugna spiritualis; mentre se accompagnate da una presenza femminile conferiscono alla visione un valore propriamente cortese, che non sarà certo mai avulso dalla fede religiosa ma il cui rapporto con essa bisognerà comprendere e valutare. Ciascuna fonte propone uno scenario leggermente diverso dalle altre, e con ciò stesso invia un messaggio specifico.

In effetti, un  “dialogo a più voci” sembra attivarsi nel confronto fra le due principali versioni della Vita celaniana, cioè la Vita del 1228 ca. e quello che oggi si preferisce denominare Memoriale in desiderio animae, la Legenda maior di Bonaventura e altri testi agiografici, principalmente la Legenda Trium Sociorum. Chi li confronti, noterà ad esempio che la differenza fondamentale tra le relazioni del sogno consiste nella presenza o meno, in ciascuna di essi, di una figura femminile, una domina o una futura sponsa. Il giovane, che si vede al centro di un ambiente ornato di armi, vede in alcune versioni – in altre no – anche una figura femminile, che si può intendere come una giovane da amare o da condurre sposa. 

Torneremo specificamente, nelle prossime conversazioni, su ciascuno di questi testi: sarebbe troppo lungo o risulterebbe forzatamente tropo compendioso il presentarli insieme.  Basti comunque il dire, adesso, che  chi ha un po’ di dimestichezza con la letteratura cavalleresca medievale e con i testi controversistici non sfugge all’impressione di trovarsi dinanzi a una precisa ancorché mediata – e magari involontaria - reminiscenza di un testo famoso del XII secolo, l’Altercatio Phillidis et Florae, che peraltro riprende fedelmente due modelli del IX secolo, il Certamen lilii et rosae di Sedulio Scoto e l’anonimo  Conflictus veris et hiemis. Secondo un genere letterario  controversistico per un verso satirico, per un altro etico-dialettico, che trova un modello venerabile appunto nelle Controversiae di Seneca seniore, padre del celebre filosofo, e che ha riscontri anche in altre tradizioni dalla Cina all’India al mondo musulmano, le due dame Fillide e Flora discutono sul tema se sia preferibile l’amore di un chierico o quello di un cavaliere.

E’ questa una delle tante variabili della Disputatio armorum et legum, tra arte della guerra e sapere, che può assumere anche altre forme e mutare l’identità dei protagonisti: arma e scientia, arma e amor, scientia e amor e via dicendo. Ne abbiamo un esempio esteticamente famoso in un testo non già letterario bensì iconico,  la tavoletta (cm. 17 x 17) soggetto della quale è che ha per l’appunto Il sogno del cavaliere: dipinta dal giovane Raffaello, essa è oggi conservata alla National Gallery di Londra. In altri termini, qui sembra che dinanzi al giovane Francesco si prospetti una vita di gloria guerriera, accompagnata anche secondo certe versioni da una profonda esperienza amorosa. Siamo con ogni evidenza dinanzi a una profezia espressa in termini allegorici: Francesco diverrà in effetti, com’egli si diceva sicuro di divenire, “un grande principe”. Ma in modo diverso da com’egli si aspettava e auspicava. O credeva di auspicare. 

 

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