Don Luigi Sturzo e i cattolici in politica
150 anni fa nasceva il fondatore del Partito Popolare Italiano
Tutto era iniziato da quell’appello “A tutti gli uomini liberi e forti” di Don Luigi Sturzo del 1919. Il famoso appello era stato redatto dalla commissione provvisoria del Partito Popolare Italiano il 18 gennaio del 1919, al momento della fondazione del partito. Siamo a Roma, all’albergo Santa Chiara, vicino al Pantheon. Questo documento rappresenta una pietra miliare della storia del Cristianesimo democratico italiano. Fino ad allora, infatti, a seguito del non expedit della Santa Sede, ai cattolici italiani era vietata qualsiasi forma di partecipazione alla vita pubblica del neonato Regno italiano: “né eletti, né elettori”. In questo appello che il sacerdote di Caltagirone, fondatore del PPI, aveva fortemente voluto, troviamo i caratteri fondamentali di quello che sarà poi definito “popolarismo”: la trasposizione in politica dei caratteri sociali ed etici della dottrina sociale della Chiesa cattolica.
L’Italia cambiava. E cambiava la politica italiana. I cattolici entravano in politica, difendendo con tenacia e amore i valori del Vangelo. Una rivoluzione per quel tempo. E Sturzo fu un “attore” principale di questo cambiamento. Il tentativo sturziano di realizzare, attraverso il Partito popolare italiano (“partito laico o aconfessionale ispirato ai valori cristiani”, come lui stesso lo definì), un impegno sociale e politico, “rispettoso sia di una ben intesa integralità del cristianesimo che di una sana laicità della politica”, riveste ancora una sua attualità.
Dopo aver sostenuto la riforma elettorale proporzionale, alle elezioni del 1919 il Ppi conquista 100 seggi parlamentari (20,6%), mentre il Psi, primo partito, ne raggiunge 156 (32,3%). Assieme, i due partiti coprono la maggioranza assoluta del parlamento, e senza l’appoggio di almeno uno dei due, nessun governo è in grado di avere la fiducia dell’assemblea. Il programma del nuovo partito aveva conquistato non poco l’opinione pubblica italiana.
C’è un punto che va sottolineato nel pensiero sturziano della politica. Un punto che trova forza nell’attenzione al sociale che aveva il sacerdote di Caltagirone: la carità. Fin dai primi anni della sua attività sociale e politica (che inizia nella terra siciliana), Sturzo sente come una missione introdurre la carità nella vita pubblica, nella convinzione che la carità cristiana non può ridursi solo alla beneficenza. Carità per lui va intesa come l’animus della riforma della società democratica nella quale le persone sono chiamate a partecipare responsabilmente. Il fine di tutto è uno solo: il bene comune.
Facendo il bene del prossimo - alto principio evangelico, tra l’altro - l’uomo politico nella concezione sturziana deve riuscire a creare uno stato in cui la giustizia e la pace regnino sovrani. Per questo motivo, la politica assume per il sacerdote siciliano un dovere morale. La “res publica”, la cosa pubblica diviene atto d’amore. Non fu un caso, allora, che quando divenne senatore a vita chiese di inserire fra i brani da far imparare a memoria il famoso inno alla carità di San Paolo. In quelle parole - che tanto sembrano dei veri e propri versi - forse si potrebbe ritrovare il “segreto” dell’azione politica di don Sturzo: “Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei un bronzo risonante o un cembalo che tintinna. Se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza e avessi tutta la fede in modo da spostare le montagne, ma non avessi la carità, non sarei nulla. Se distribuissi tutti i miei beni per nutrire i poveri, se dessi il mio corpo per essere arso, e non avessi la carità, non mi gioverebbe a nulla”. (Rivista San Francesco - clicca qui per scoprire come abbonarti)
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