esteri

La democrazia alla prova

Paolo Garimberti
Pubblicato il 04-11-2020

Come sarà l’America, come sarà il mondo

«Stasera parlo in nome della dignità dell’uomo e del destino della democrazia». Così cominciava il discorso di Lyndon Johnson di fronte al Senato e alla Camera in seduta congiunta per chiedere l’approvazione del Voting Rights Act. Era il 15 marzo 1965, una settimana esatta dopo il Bloody Sunday in cui la polizia aveva caricato in modo selvaggio una pacifica marcia a Selma, Alabama. Mai, dai tempi della guerra civile, l’America era stata così divisa, o, come si dice oggi, polarizzata. «In certi momenti — continuò Johnson con un repertorio retorico che non gli apparteneva, ma era stato preparato da un grande speechwriter ereditato dalla squadra di John Kennedy — la storia e il destino si incontrano nello stesso tempo e nello stesso luogo per definire una svolta nell’infinita ricerca della libertà da parte dell’uomo».

Le due Camere interruppero il discorso 39 volte per applaudirlo e il volto di Martin Luther King, che era davanti alla tv come altri 70 milioni di americani, cominciò a irrigarsi di lacrime. Simon Schama, giornalista e saggista che ha seguito e raccontato sei presidenze degli Stati Uniti, ricordando quella drammatica e insieme catartica seduta del Congresso cinquantacinque anni fa, sostiene giustamente che le elezioni di oggi sono un altro «defining moment», un momento della verità, per la storia dell’America, ancora più polarizzata di quella di allora. Perché questo voto non è soltanto una «prova di forza tra due tribù politiche ostili», ma è, appunto, «un momento della verità per la solidità della stessa democrazia americana e soprattutto della sua premessa, un pacifico trasferimento dei poteri dallo sconfitto al vincitore».

Era il 1896 quando per la prima volta lo sconfitto riconobbe di aver perso. Nel telegramma che William Jennings Bryan inviò al suo avversario, appena due giorni dopo il voto, un lasso brevissimo tenuto conto delle difficoltà della conta dei voti in quei tempi, era scritto: “Abbiamo sottoposto la questione al popolo americano e la sua volontà è legge”. Oggi, se il conteggio elettorale si prolungherà troppo, se il sospetto di brogli continuerà a echeggiare sui social e sui media, se insomma la volontà del popolo americano non diventerà legge nel più breve tempo possibile, c’è il rischio che il conflitto culturale, in corso ormai da anni, tra due Americhe, entrambe convinte di essere il vero detentore e l’ultimo custode della democrazia e del way of life, esploda nelle vie e nelle piazze.

Ecco che queste elezioni diventano un momento della verità non solo per l’America, ma per il mondo intero. Non perché la eventuale vittoria di Biden possa portare grandi cambiamenti nella politica estera degli Stati Uniti. La guerra fredda con la Cina non è più, ormai, soltanto un’ipotesi di studio per gli appassionati di politologia. È una realtà operativa, che si estende a troppi settori — dalla tecnologia alla geopolitica, dalla sanità ai commerci, dagli armamenti al soft power — perché chiunque sieda alla Casa Bianca nei prossimi quattro anni possa radicalmente modificare la linea di condotta.

Ed è difficile pensare che Biden possa essere più dialogante con Putin o non avallare la svolta in Medio Oriente segnata dagli “accordi di Abramo”. Semmai l’unico campo dove un nuovo presidente può realisticamente gettare un po’ di terra per coprire i buchi aperti da Trump è quello dei rapporti con l’Unione Europea e del ruolo della Nato: non una svolta epocale, soltanto un recupero del fair play diplomatico. Piuttosto queste elezioni sono un momento della verità per il mondo intero per la semplice ragione che gli Stati Uniti non sono la Bielorussia, dove un’accusa di voto truccato ha portato in piazza migliaia di persone e all’esilio del leader dell’opposizione. 

Se è ancora vero l’assioma che l’America è “il leader del mondo libero”, allora è legittimo che il mondo libero attenda dall’America una prova di grande democrazia, una conferma che il suo è un modello da contrapporre alle “democrazie illiberali” degli Orbán e dei Putin di tutto il pianeta. Ha ragione lo scrittore Jonathan Safran Foer a dire, nell’intervista apparsa ieri su questo giornale, che «c’è in gioco il senso ultimo di cosa sia l’America». Perché da cosa sarà l’America nelle prossime settimane dipende cosa sarà il mondo. Se la democrazia fallisce in Bielorussia è una tragedia per la Bielorussia. Ma se fallisce in America è una tragedia globale. (La Repubblica)

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