Maledetto virus mi hai insegnato ad avere paura dei miei figli
Ci sono molte cose che sono cambiate a causa di questo virus
Fino a oggi, non mi sono ancora ammalato, comincio a sperare di riuscire ad arrivare ai vaccini senza che succeda; ma ci sono molte cose che sono cambiate a causa di questo virus. E ce n' è una che mi sembra intollerabile, e con la quale invece sono costretto a convivere: la pandemia mi ha insegnato ad avere paura dei miei figli.
Ho due figli, una frequenta l'università a Bologna, l'altro va alle medie, è sempre andato a scuola finora, e vive con me. Quando torna a casa dico: togliti le scarpe, lavati le mani. Lui sbuffa e dice sì. Poi si avvicina, mi abbraccia e io dico, scansandomi: ti sei lavato le mani? Ma sì!, dice lui. E così mi lascio abbracciare mentre penso: e se non le ha lavate? E se le ha lavate male? E se mi sta spalmando il virus?
Fino all'arrivo della pandemia, erano i miei figli, al limite, ad aver paura di me (molto al limite). Se mi incazzavo per qualcosa, se riuscivo a essere severo. Adesso sono mite, malinconico, pedante, molto pedante. E un po' distaccato; cerco di non esserlo ma l' istinto mi porta a star lontano da loro. Qualche volta mio figlio invita un compagno di scuola a studiare. Io cerco di tornare a casa quasi sempre dopo che il compagno di scuola se n'è andato. Apro tutto, ma la puzza di ormoni di due ragazzini preadolescenti è più difficile da scacciare del pesce fritto della domenica, e dentro quegli ormoni sperperati nella casa saranno rimaste di sicuro tracce di virus.
Il giorno dopo, mio figlio va a scuola e poi a basket (all'aperto), il giorno dopo ancora va a scuola e poi a lezione d' inglese. E io penso a tutte le probabilità che ha di portare a casa il contagio. Intanto leggo sui giornali, come tutti, ogni giorno, tutte le interviste ai vari esperti, che unanimi dicono: ci si contagia soprattutto in famiglia.
Mia figlia è a Bologna. Vive con sei altri studenti in una casa. Io la ritengo, semplicemente, un'appestata. Non mi chiama mai perché è talmente impressionata dalla mia paura che teme che io pensi che se mi telefona, mi contagia. Allora la chiamo io. Ogni volta, mi risponde con una voce squillante in mezzo a un rumore molto evidente di strada piena di giovani vocianti e di rumore di stoviglie fortissimo, quello che solo i baristi sanno produrre quando lanciano le tazze e i bicchieri tutti insieme nel lavello, con l'intenzione di fare più casino possibile (non si capisce perché).
Alle volte, penso di essere dentro una serie tv distopica: io la chiamo dal 2021, e lei mi risponde dagli anni 70 a Bologna, e accanto a lei c' è Andrea Pazienza e quella musica lontana dev'essere un concerto degli Skiantos. I baristi, anche negli anni 70, fanno un gran rumore di stoviglie.
Le chiedo: ma dove sei?
E dove devo stare, dice lei, a casa. Non è a casa, a meno che non abbia una app che ripropone i rumori delle strade piene di ragazzi vocianti e di stoviglie nei bar. E se non è a casa, penso che sono fortunato che stia a Bologna e non qui. E vorrei che questa fortuna venisse decisa per decreto: tutti i giovani studenti (secondo me non solo universitari, ma dalla scuola materna in su, però forse è chiedere troppo) dovrebbero vivere e studiare in una città sufficientemente lontana. Dovrebbero stare in un'altra regione e dovrebbero prendere la residenza, in modo che non possano più, fino alla fine della pandemia, tornare a casa a infettare i loro genitori. La motivazione è semplice: tranne rarissime eccezioni, se quegli studenti si ammalano, guariranno facilmente. Se ci ammaliamo noi, diventa molto complicato. Per questo, loro possono ammalarsi, ma non stare vicino a noi... (Reubblica)
Cari amici la rivista San Francesco e il sito sanfrancesco.org sono da sempre il megafono dei messaggi di Francesco, la voce della grande famiglia francescana di cui fate parte.
Solo grazie al vostro sostegno e alla vostra vicinanza riusciremo ad essere il vostro punto di riferimento. Un piccolo gesto che per noi vale tanto, basta anche 1 solo euro. DONA