La detenzione non sia vendetta
83 suicidi in cella nel 2022. È necessario ripristinare i contatti con l’esterno
Il rapporto annuale dell’associazione Antigone, nata nel 1991 e che dal 1998 svolge attività di monitoraggio delle condizioni di detenzione, evidenzia il 2022 come uno degli anni peggiori per suicidi in cella: sono 83. L'attualità delle ultime settimane ha rimesso al centro della scena la questione carceraria italiana, già sotto i riflettori dopo i fatti del carcere di Santa Maria Capua Vetere. Tra linguaggio inappropriato, sovrafollamento e scarsa attenzione al processo di reintegrazione sociale, resta sempre più un vuoto che coinvolge tanto i minori quanto gli adulti, capace di trasformare la detenzione in una vendetta, in cui l’aspetto punitivo è l’elemento centrale. A volte l’unico. Abbiamo parlato con Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, di queste ed altre criticità. Senza dimenticare le “anomalie positive”.
Presidente, periodicamente Antigone pubblica dei report sul sistema di detenzione. Secondo la vostra osservazione ci sono dei miglioramenti?
È difficile fare una diagnosi in questo senso, bisogna capire cosa intendiamo per miglioramento. Se ci riferiamo alla qualità della vita in carcere più affine ai bisogni delle persone, che tenga dunque conto dei bisogni e dei diritti, direi che la situazione è tragicamente ferma. Stiamo notando che, a prescindere dai vari governi che si sono alternati, manca una visione che metta al centro l’uomo. L’articolo 27 della nostra Costituzione specifica chiaramente che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. È un articolo che stila un programma di lavoro per le istituzioni e per chi si occupa dell'esecuzione penitenziaria. Questo immobilismo nasce anche da un linguaggio spesso sbagliato, utilizzato dall’opinione pubblica, dai media e dalle classi dirigenti, che non descrive la pena come un momento utile per la persona condannata e per la collettività, ma la esplicita come una vendetta.
Possiamo dire che abbiamo perso di vista la funzione del reinserimento nella società?
Negli ultimi anni sono prevalse altre parole d’ordine e una visione miope di tipo contenitivo, per cui la persona condannata deve tendenzialmente scontare tutta la carcerazione prevista in sentenza, irridendo ogni ipotesi di investimento in percorsi di recupero sociale. Guardando alla realtà minorile il recupero è ancora più importante. È necessario attivare una serie di percorsi che non siano manichei di tipo punitivo, c’è bisogno di tempo, di costruzione di un dialogo, di offerta di opportunità. Oggi ci si investe molto poco e non è un caso che i tassi di recidiva sfiorano il 65%. Ciò significa che il periodo di carcerazione è un periodo che quasi produce un rafforzamento della carriera deviante piuttosto che invece un ritorno alla legalità.
Tanto in tema di minori, quanto riguardo agli adulti, qual è il ruolo dei media? La stampa, la televisione e la rete dovrebbero aiutarci a utilizzare un linguaggio più consono, adeguato e più giusto.
Non c’è dubbio, i media “classici” e “nuovi” hanno un ruolo determinante nella costruzione del sentire comune. Dovrebbero recuperare una funzione pedagogica intorno alla pena che sia un sentire ragionevole, costituzionale. Papa Francesco il 23 ottobre del 2014 parlò ai delegati dell'associazione internazionale del diritto penale, pronunciando parole nette su carceri e giustizia. Fu un discorso straordinario, con una capacità di lettura sociologica dei fenomeni importantissima, dando un'idea di ciò che la pena deve essere. Ha parlato di carcerazione preventiva, di detenuti anziani, di ragazzini, di quello che oggi è diventato il sistema penale selettivo, un po’ razzista, classista, di come trattiamo gli stranieri in carcere, di come dovremmo invece investire sulle misure alternative, di cosa dovrebbe essere della pena è dell'ergastolo… un discorso fondamentale ma che non ha avuto la risonanza mediatica che avrebbe meritato.
Bisogna ammettere che senza l’inchiesta del quotidiano Domani non avremmo saputo delle violenze subite dai detenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, portando così alla ribalta la vergogna delle torture in alcuni penitenziari. Quanto è forte la tendenza a considerare i detenuti persone di serie B che non meritano un trattamento umano?
La violenza non ci deve sorprendere perché esiste fuori e esiste, ovviamente, anche dentro le carceri. Però ci deve indignare. Con i fatti di Santa Maria Capua Vetere ci siamo resi conto che c’è ancora una diffusa pratica di violenza gratuita totalmente, sganciata da ogni esigenza di legalità o sicurezza. Ci sono tanti processi, in giro per l’italia, per tortura. Non dobbiamo, però, generalizzare e considerare che la tortura sia una pratica sistematica perché fortunatamente non è così. Il sistema carcerario italiano è, diciamo come tutte le istituzioni pubbliche, molto differenziato da luogo a luogo, a seconda di chi è il direttore, di chi è il comandante di reparto, della vocazione di istituto. Abbiamo tante realtà sane, sia umane che strutturali; poi c’è una “patologia” che, purtroppo, quando diventa troppo frequente inizia ad assumere caratteri fisiologici e per questo oggi esiste il reato di tortura previsto dall’articolo 613 bis del Codice penale. Antigone è promotrice di alcune azioni giudiziarie. Fortunatamente c’è una giustizia che cerca di dare restituzione di verità e di memoria. Quello che forse ancora manca è una collaborazione per la repressione di questi comportamenti.
Dai rapporti di Antigone vediamo che il 2022 si è chiuso con 83 suicidi in carcere. Che cosa dobbiamo aspettarci per questo 2023?
Non è facile dirlo. Sicuramente l’aumento dei suicidi del 2022 è in relazione con quell’assenza di visione di cui ho parlato. C’è poi la pandemia che ha contribuito ad allontanare il carcere dal territorio, a isolarlo riducendo i contatti con l’esterno. Per il 2023 stiamo chiedendo all’amministrazione penitenziaria di adoperarsi per ripristinare il più possibile certi contatti, che costituiscono una forma straordinaria di prevenzione del rischio di suicidio. Più un detenuto non è solamente un numero di matricola, oscuro e anonimo, ma la sua identità è nota, la sua storia e la sua biografia pure, più operatori ci sono dentro, educatori, assistenti sociali, poliziotti giovani, direttori, più c’è la possibilità che la sua disperazione trovi qualcuno che la sappia affrontare. Maggiori contatti ci sono con i familiari, sia telefonici – oggi l’amministrazione consente una telefonata a settimana, troppo poco – che visivi, più possibilità di andare a scuola, di incontrare volontari, sacerdoti, ministri di culto, più si allontanano le idee suicidarie. Quindi quello che vorremmo che accadesse è questa presa di coscienza da parte delle istituzioni cioè ricostruire un legame forte tra i carcere e la comunità esterna senza paure perché questo è uno dei più straordinari ed efficaci metodi di prevenzione dalle tragedie in carcere
Come ha sottolineato non dobbiamo generalizzare la situazione delle carceri italiane. Ci fa un quadro di alcuni esempi nobili?
Piuttosto che fare una classifica delle carceri, presenterei due specificità italiane che configurano il nostro sistema come un sistema di “positiva anomalia” nel quadro europeo. Il primo è la presenza di associazioni di volontariato, laiche o cattoliche, che non sempre sono presenti in Europa. Queste associazioni propongono attività, eventi, assistenza e altre iniziative che migliorano la condizione di vita in carcere. La seconda “anomalia positiva” riguarda l’istruzione universitaria. Circa un migliaio di detenuti, per iniziativa delle università italiane, oggi sono iscritti e possono sentirsi parte della comunità di studi che c’è nel nostro Paese. C’è poi una terza più recente. Dopo oltre vent’anni sono stati assunti 57 nuovi giovani direttori che prenderanno servizio nei prossimi mesi. Si tratta di un passo importante perché parliamo di un lavoro usurante, difficile e non necessariamente troppo gratificante, dove un ricambio generazionale è quantomai necessario per portare una boccata d’ossigeno nel management penitenziale.
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