In fuga da guerra e torura. La nuova vita della famiglia siriana comincia dalla parrocchia
“Mi hanno colpito qui e qui. Sono stato in coma 20 giorni”, spiega Qutaiba indicando la cicatrice sotto i capelli e l’occhio rimasto asimmetrico, come dopo una plastica malriuscita. Si tocca la testa, il viso e descrive le torture subite in Siria, prima dal governo che lo credeva una spia e poi dai miliziani di Daesh che lo avrebbero voluto schiavo più collaborativo. Qutaiba ha 30 anni, ma ne dimostra di più. È scappato dalla Siria in fiamme, dalla guerra, dalla tortura. Sua moglie Munirva, che conserva invece i lineamenti delicati di un’adolescente, secondo il documento d’identità supera il marito di un anno. Con loro Taim e Layth, i due bambini di 6 e 3 anni: siedono composti e attenti nella sala parrocchiale mentre i genitori raccontano le peripezie vissute per arrivare in Italia, grazie alla mediazione della Comunità di Sant’Egidio, insieme a Papa Francesco di ritorno da Lesbo. Siamo nella parrocchia romana della Trasfigurazione, a Monteverde, dove il parroco, monsignor Battista Pansa, si è fatto garante per questa famiglia in fuga.
Insieme ai parrocchiani si è dato da fare per trovare una casa decorosa e dignitosa in cui i rifugiati possano ricominciare una nuova vita.
Qutaiba è un ingegnere petrolifero, lavorava in un impianto statale al confine con l’Iraq. Imprigionato a Damasco all’inizio dei bombardamenti, ha subito a lungo botte e torture mentre, fuori dal carcere, suo figlio Taim, veniva colpito al fianco dalla pallottola di un cecchino. Era solo uscito a comprare un pacchetto di patatine, è un bambino, non era pericoloso. I genitori di Qutaiba intervengono: pagano una non meglio precisata somma di denaro per la scarcerazione del figlio, mandano Munirva e i bambini in zona sicura e lui torna al suo lavoro. Ma Qutaiba arriva in tempo per assistere alla conquista della zona da parte di Daesh: “Ci hanno catturato, tutti noi in servizio agli impianti, e ci hanno detto che ora avremmo lavorato per lo Stato islamico. Gratis”. Per sette mesi è schiavo, poi viene di nuovo imprigionato e ricominciano le torture: questa volta viene picchiato a lungo, con violenza, sulla testa. Oggi fuma una sigaretta dietro l’altra, e sua moglie con lui, mentre ricorda le botte e la fuga dopo l’ennesimo bombardamento costato la vita a occupanti e civili. Osservando il mozzicone tra le dita non si può fare a meno di notare che l’unghia dell’indice della mano destra non è uguale alle altre, cresce storta, strana, come se fosse stata strappata dalla carne viva.
Chiedere il motivo è superfluo, la cronaca continua.
“Per dieci mesi non ho saputo più nulla di Qutaiba, non sapevo se fosse vivo o morto”, dice Munirva. Lei era sola in Turchia con i due bambini. Tirava avanti aspettando un cenno, un’indicazione finché una telefonata dei suoceri rompe il silenzio: suo marito è a Lesbo. Dopo un viaggio per mare irto di peripezie, all’arrivo nell’immenso campo profughi dell’isola la famigliola si riunisce. Mentre parlano, alla parete della sala parrocchiale è appesa una mappa con le vie di San Paolo.
Le linee colorate dei viaggi apostolici che attraversano terre dai nomi omerici sembrano quelle dei profughi odierni sulle cartine dell’Unhcr: dalla Palestina e dalla Siria alla Grecia, passando sempre dalla Turchia. La Storia e le storie si intrecciano sulla stessa geografia.
Qutaiba e Munirva cercano di orizzontarsi e ripercorrono per noi il loro viaggio, quando il racconto arriva alla visita di Papa Francesco. Nell’occasione la Comunità di Sant’Egidio predispone una sorta di corridoio umanitario per alcune famiglie e il fascicolo di Qutaiba e Munirva è tra quelli al vaglio. Lui è ancora incredulo nel ricordarlo: “Ci hanno convocato i greci e ci hanno chiesto se volevamo partire. Certo che volevamo!”. Del viaggio papale non parlano, emozione o discrezione giocano un ruolo importante nel loro silenzio. Ma arrivati a Roma una nuova separazione: Qutaiba in un pensionato maschile e Munirva e i bimbi presso delle religiose. Serve una casa per loro, nessuno si fa avanti. “Mi hanno chiamato da Sant’Egidio per altre cose – spiega don Battista – e parlando hanno detto che c’era questa famiglia che non si sapeva dove ospitare. Non ho esitato: troviamo una sistemazione”. In poco tempo la parrocchia è coinvolta per l’accoglienza.
Padre siriano in parrocchia
Maurizio, membro del consiglio per gli affari economici, scandaglia gli appartamenti in affitto spiegando il caso a proprietari poco convinti. Poi la svolta: c’è chi da Firenze corre a Roma, incontra tutti, comprende situazione e necessità e firma il contratto d’affitto. “Ora la casa è in uso per loro – prosegue don Battista – ma se in futuro dovesse servire per altri, sarà già pronta”.
Il futuro è più vicino di quanto si pensi, perché la parrocchia della Trasfigurazione si appresta ad accogliere una seconda famiglia di profughi: ricomincia la cerca.
Intanto Qutaiba e Munirva tacciono e ascoltano: in attesa di imparare l’italiano oggi li aiuta Assan, che traduce l’arabo. Guardando la ragazza col velo la domanda è istintiva: “siete musulmani e venite ospitati dai cattolici, cosa ne pensate? Qui c’è chi dice che siamo troppo diversi, che siamo in guerra”. Sorridono, perplessi: “Prima non c’erano problemi, in Siria vivevamo tutti insieme, cristiani e musulmani. Molti nostri amici erano cristiani. Non è una guerra di religione”. Cosa avete lasciato là? Si guardano e sorridono di nuovo, con amarezza: “niente – rispondono -, solo polvere e cenere. Della nostra casa, della nostra vita di prima non è rimasto nulla. Nulla per cui voltarsi indietro”.
La vita è qui e ricomincia adesso. (Emanuela Vinai - Agensir)
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