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Francescani in Cina, una storia lunghissima VIDEO

Redazione online
Pubblicato il 30-11--0001

Aa.Vv., I francescani e la Cina. 800 anni di storia, Edizioni Porziuncola, Assisi 2001.

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Non furono i gesuiti, a metà del Cinquecento, i primi missionari cattolici a giungere in Cina. Due secoli e mezzo prima di loro un gruppo di francescani era riuscito nell’impresa di raggiungerla e predicarvi la fede. Un recente volume, che raccoglie gli Atti di un convegno tenuto a Santa Maria degli Angeli ad Assisi nel 2000: I francescani e la Cina. 800 anni di storia, edizioni Porziuncola, riscopre queste figure spesso dimenticate, che risalgono alla prima generazione dei frati minori.

Alla morte di Francesco, nel 1226, la Cina era poco più di un nome nella memoria degli eruditi o nei racconti dei mercanti veneziani di ritorno dal Vicino Oriente. Per l’Occidente, l’islam rappresentava ancora il principale termine di confronto e il pericolo più incombente. Francesco stesso aveva tentato l’avventura di convertire gli infedeli, e su quella scia molti frati partivano, in quegli anni, alla volta del Marocco, dove avrebbero trovato la gloria del martirio.



Il flagello dei Tartari

Ma Francesco non poteva prevedere che in poco tempo altri orizzonti si sarebbero aperti alla cristianità e al suo giovane ordine. Era passato solo un anno dalla sua morte che, all’altro capo del mondo, si spegneva Gengis Khan, fondatore dell’impero mongolo, e il figlio Ogodai si apprestava a colpire il cuore dell’Europa con le orde dei suoi Tartari. Cavalieri spietati e feroci, essi conquistarono gli altipiani iranici, annientarono i principati russi e comparvero improvvisi, nel 1241, alle porte di Cracovia.

Per un anno intero Polonia, Ungheria e Balcani, fino alle coste dell’Adriatico, furono devastati dalle truppe del generale Batu. Poi, improvvisamente, alla notizia della morte di Ogodai, si ritirarono, per essere di nuovo inghiottiti dalle steppe eurasiatiche e ritrovarsi a Karakorum, capitale di un impero immenso, dal Pacifico agli Urali.


Lo sgomento in Europa fu grande, temperato però dalle notizie delle sconfitte subite dai musulmani ad opera dei mongoli. Innocenzo IV, aprendo nel 1245 il Concilio di Lione, pose la questione del remedium contra Tartaros. Fu deciso di inviare a Karakorum un legato pontificio, per chiedere al Khan la conversione dei Tartari e la rinuncia alla conquista dell’Europa in vista di una possibile alleanza contro l’islam.

La scelta cadde sul francescano Giovanni da Pian del Carpine. Percorrendo più di 10mila chilometri «per poter portare a compimento la volontà di Dio, secondo l’incarico del signor papa e per essere in qualche modo d’aiuto ai cristiani», Giovanni raggiunse la Syra Orda, la tenda del nuovo imperatore Guyuk, il 22 luglio del 1246. Recava con sé due lettere papali. Fu il primo occidentale a ritrovarsi faccia a faccia col sovrano più temuto della terra, quindici anni prima dei fratelli Matteo e Niccolò Polo. La sua missione costituì il primo, esile filo di contatto tra l’Occidente e quel mondo così distante.

Quanto alle offerte di pace e agli inviti alla conversione, fra Giovanni trovò ostinato il cuore di Guyuk, ma fu trattato, personalmente, con grande deferenza, come era accaduto a Francesco con il sultano.


Nuove opportunità

Quando tornò sano e salvo in Europa nel 1247 fu accolto con stupore. Per quanto temibile e ostile, su quel mondo era stato tolto il velo dell’ignoto che lo rendeva ancora più spaventoso. E quando i Polo, poco dopo il 1260, giunsero alla corte del Khan, trasferita nel frattempo a Khambaliq (Pechino), vi trovarono un imperatore curioso e ben disposto, Qubilai. Ai mercanti veneziani il Kahn «dimandò di messere il papa e di tutte le condizioni della Chiesa romana e di tutte le usanze dei latini». Il ritorno dei Polo, nove anni dopo, fu foriero di buone nuove per il Pontefice. Qubilai aveva chiesto loro di tornare accompagnati da uomini di scienza che istruissero i tartari sulla religione cristiana e, per sé, desiderava un po’ dell’olio che ardeva nella lampada del sepolcro di Cristo.

Ma i Polo tornarono soli in Cina. I domenicani che il Papa aveva inviato con loro non giunsero sino a Pechino. Il giovane Marco, figlio di Niccolò, rimase al servizio di Qubilai per diciassette anni, ma non fece in tempo a vedere insediato nella Città proibita il primo vescovo cattolico di Pechino, il francescano Giovanni da Montecorvino.



L’inculturazione tra i Mongoli

Della memoria di questo straordinario personaggio, che visse alla corte dei Khan per 34 anni, molto si è perduto. E questo perché la Chiesa nata per la sua attività missionaria non resistette alla cacciata dei Mongoli e all’insediamento della dinastia Ming (1368) che chiuse il Paese alle influenze straniere. Inoltre Giovanni non fece mai ritorno in Europa, e le fonti storiche sulla sua attività sono scarse e frammentarie.

Era partito nel 1287 in seguito a una nuova ambasceria inviata da Qubilai al Papa per rinnovare la richiesta di missionari. Fu allora che Nicolò IV, primo papa francescano, decise di inviare al Khan questo dotto ed esperto confratello.

Giovanni da Montecorvino viaggiò per anni, recando con sé 26 lettere papali da consegnare ai sovrani e ai vescovi delle Chiese d’Oriente che avrebbe incontrato sul cammino. Attraversando il Vicino Oriente, la Persia, e l’India, approdò infine, nel 1294, sulle coste della Cina in compagnia del mercante genovese Pietro Lucalongo. L’imperatore Timur, succeduto nel frattempo a Qubilai, gli concesse di annunciare liberamente il Vangelo in mezzo ai Tartari.


Straordinaria fu la portata dell’azione missionaria di frate Giovanni e la sua capacità di adattamento alla cultura locale: egli celebrava la messa in lingua tartara e fece grandi sforzi per approntare una traduzione del salterio, del Nuovo Testamento e del messale. Un’attività notevole, se si pensa che Giovanni visse da solo in Cina per undici anni, dimenticato da tutti, finché arrivò presso di lui frate Arnaldo di Colonia. Quando riuscì a far pervenire sue notizie in Europa, con una lettera dell’8 gennaio 1305, tutti ormai lo credevano perduto.



Arcivescovo di Pechino

Nonostante le difficoltà e le invidie suscitate a corte, Giovanni riuscì a conservare la fiducia del Khan e a convertire alla fede cattolica il principe di Tenduk, Giorgio, con molti dei suoi sudditi.

Ma la sua azione missionaria non poteva estendersi se non fosse sopraggiunto un aiuto dalla cristianità. Alla sua seconda lettera, del 13 febbraio 1306, Clemente V rispose inviando in Cina un gruppo di frati francescani, tra cui sette vescovi, perché raggiungessero fra Giovanni e lo consacrassero arcivescovo di Pechino. Il gruppo giunse a destinazione verso il 1310 e Giovanni diede inizio a una vera e propria organizzazione ecclesiastica.


Alla sua morte, avvenuta nel 1328 all’età di 81 anni, fu venerato come santo. La Chiesa cinese gli sopravvisse per soli quarant’anni, anche perché la peste nera del 1348 aveva decimato i frati minori, impedendo così l’invio di nuovi missionari. Ciononostante, la sua memoria non scomparve del tutto. Giovanni era riuscito, con l’aiuto di Dio, in modo insperato e inaspettato, a deporre un seme che sarebbe rimasto sepolto per oltre due secoli, fino all’arrivo dei gesuiti e alla ripresa dei rapporti tra Occidente e Cina nell’epoca delle grandi colonizzazioni. (gliscritti.it)

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