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Dare e ricevere umanità

Elisabetta Reguitti Ansa - Filippo Venezia
Pubblicato il 18-02-2022

Intervista a don Gianluca Mangeri

Da ondata a ondata, da Covid a Covid, attraverso l’oro delle cicatrici trovato e ricevuto dai malati che ha incontrato, e dal suo stesso stato di malato, poi guarito, di Covid.
L’esperienza raccontata da don Gianluca Mangeri – sacerdote laureato in medicina e specializzato in oncologia al Gemelli di Roma, e cappellano in uno dei maggiori ospedali di Brescia, l’Istituto Ospedaliero Poliambulanza – ricorda, senza esagerare, il cammino cristiano e francescano: l’ospedale diventa la salita al Calvario e don Gianluca è il cireneo che aiuta tanti poveri cristi a sorreggere l’asse trasversale della croce con lo sguardo diretto verso la luce della Risurrezione. Don Gianluca tocca con mano le sofferenze fisiche e dell’anima, ne condivide il dolore come Francesco sulla Verna ha condiviso le piaghe di Cristo.
Un unico filo conduttore accomuna le storie – raccolte tra novembre 2020 e maggio 2021 –, che si intrecciano nelle corsie dell’ospedale Poliambulanza di Brescia: “imparare a ricevere”.

Don Gianluca, da dove nasce questa vocazione?
Ha origine nella mia vocazione al sacerdozio, questa è la mia “prima chiamata”, obbedendo alla Chiesa è emersa poi una “chiamata nella chiamata”, quella di servire la carne sofferente di Cristo nella persona dei malati. Per me è stato un ritorno alle origini perché il mio cammino da medico oncologo è partito proprio da questo ospedale, nel 2000, e tornarvi nel 2018 per occuparmi, come sacerdote, della salute spirituale dei malati è stata una grande sorpresa di Dio.

Si tende a pensare che essere cappellano in ospedale sia un servizio da prete in pensione. Lei con i suoi 49 anni dimostra proprio l’esatto contrario.
Mi sto rendendo sempre più conto che l’ospedale è un luogo di frontiera importantissimo per l’evangelizzazione. Ho incontrato recentemente un malato, Lucio, che si è confessato e ha fatto la comunione dopo 50 anni, e non è l’unico. La sofferenza mette in discussione e apre il cuore ad accogliere il seme del Vangelo. L’ospedale è una “periferia esistenziale” che ha sete di Vangelo, perché ha sete di speranza. Occorrono persone cariche di energia e di umanità per poterla donare.

Cosa serve oggi per essere cappellano in ospedale?
Servono mani e un cuore pronto a donare con entusiasmo l’acqua viva della speranza. Serve un cuore umile per saper accogliere dai malati e dagli operatori sanitari l’umanità che loro stessi possono donare. Serve tanta disponibilità a dare, ma anche a ricevere in umanità.

Come si approccia nell’incontro con malati di altre religioni?
In punta di piedi, cercando di capire, di ascoltare, per gettare così le fondamenta di un dialogo. Mi sono accorto che l’ospedale è un luogo dove si può vivere concretamente l’enciclica “Fratelli Tutti”, appunto perché, come dice il Papa, siamo tutti sulla stessa barca, fragili e disorientati, bisognosi di conforto vicendevole. Con diversi fratelli di altre religioni non solo ho potuto dialogare, ma anche pregare insieme. Mi sono accorto che anche da loro posso imparare.

A marzo 2020 i primi sintomi di una polmonite da Covid-19. Ci racconti quel periodo. Cosa ha significato per lei l’esperienza di paziente quando invece sarebbe dovuto stare vicino agli altri malati?
Prima medico, poi sacerdote e cappellano… poi per la prima volta mi sono trovato ad essere paziente. Sono stato ricoverato 10 giorni nel “mio” ospedale. Amareggiato, pensavo a quanto avrei potuto fare per i malati e per gli operatori. Come potevo lasciarli soli nella battaglia contro il virus? In questa mia impotenza ho sentito però come un richiamo: “Impara a ricevere”. Durante la convalescenza la rilettura della Storia di un’anima, di Teresa del Bambin Gesù, mi ha interpellato con queste parole: “Impara a ricevere tutto dalle mani del Buon Dio!”. Non avevo mai pensato quanto fosse fondamentale imparare a ricevere.

Cosa è cambiato nel suo servizio di cappellano dopo il Covid?
La malattia è come se avesse innescato in me un principio trasformante che mi ha portato a mettere ancora più entusiasmo e grinta nell’incontrare e nell’ascoltare. Mi ha aiutato a dilatare gli orizzonti per vedere in ogni incontro una nuova possibilità di crescita umana e pastorale.

Dai suoi incontri è nata una raccolta: il libro “L’oro nelle cicatrici” edito da Aliberti con la prefazione di padre Enzo Fortunato e la post-fazione di Elisabetta Reguitti. Di cosa si tratta esattamente?
È una raccolta di storie in cui narro i miei incontri con malati e operatori sanitari da novembre 2020 a maggio 2021, nel corso della seconda e terza ondata della pandemia. Malati credenti e non credenti, cristiani e di altre religioni. Tanti e diversissimi i volti incontrati nei reparti e nelle terapie intensive Covid. Volti ansimanti alla ricerca di ossigeno e tenerezza, di acqua e di carezze. Le mie cicatrici mi hanno aiutato a individuare e curare le loro ferite e a far emergere un filo d’oro, quello della speranza. È il filo che scorre in tutto il libro.

Tutti i proventi della vendita del libro a lei destinati sono devoluti al progetto “Un vaccino per noi” di Medici con l’Africa Cuamm. Da dove nasce la sua scelta di fare in modo che il libro possa diventare – nel suo piccolo – un volano per l’acquisto di vaccini per le popolazioni africane?
Nasce dall’accorato e ripetuto appello di papa Francesco per sostenere la campagna vaccinale anti-Covid nei paesi più poveri. Mi sono chiesto cosa posso fare io? Fare del libro un ponte di solidarietà. Da Covid a Covid, da dolore a dolore, dall’Italia all’Africa, posso dare la mia “goccia”. Mi sono incontrato con don Dante Carraro, direttore dei medici con l’Africa, CUAMM. Mi ha raccontato di quello che stanno facendo con la campagna “Un vaccino per noi” per cercare di portare i vaccini fino all’ultimo miglio, fino alle periferie più lontane e abbandonate degli 8 paesi africani in cui operano. Sapere che questo libro possa contribuire a far del bene anche in Africa, mi pare dia ancora più senso a tanto dolore incontrato, contribuisca a non disperderlo, ma a trasfigurarlo ulteriormente per dare vita!

Siamo ancora del tutto immersi nella pandemia ma lanciando il suo sguardo oltre questo periodo che messaggio di speranza intravede e vuole donare ai nostri lettori?
Un invito a guardare “oltre”. “Ci sono sempre mille soli al di là delle nuvole” recita, un proverbio indiano. Si tratta di guardare oltre le nuvole delle paure, dei pregiudizi per vedere “oltre” ciò che illumina, riscalda e porta pace al cuore. Lo auguro a me e a tutti i lettori!

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