Il mio caro fratello, vizioso e peccatore: e così santo
Sarà perché mi è simpatico anche se ci ho sempre capito poco, sarà perché mi chiamo come lui e quindi lui è il mio santo patrono, ma io Francesco lo sento come un fratello e un compagno di vita, di viaggio, di giochi. E’ allegro, spiritoso, gioviale: con lui mi diverto. Soprattutto mi ci riconosco su un punto: aveva un sacco di vizi, vale a dire d’inclinazioni al peccato. Che poi nel peccato non cadesse, a differenza di quel che càpita a me, è un altro discorso: lui era un santo, io no. Quando per strada mi volto ancora (a settantasei anni) a rimirare il “Lato B” di una bella ragazza, o quando m’incollo davanti a una risplendente vetrina di pasticceria, lui mi tira per la manica e mi porta via: “Ma va’ là che sei vecchio!...”; “Ma dài, che sei grasso!...”. Però mi capisce: ed è solidale con me. Perché, quanto a vizi, era un vizioso eccome. Solo che dominava i suoi vizi, li superava: non era un “represso”, un “complessato”, come si direbbe oggi in questi tristi tempi di falsità e di conformismo nei quali non si sa più né amare, né obbedire. Era uno che esercitava in grado eroico le virtù cristiane: vale a dire, un santo. Ecco tutto. Ma era un vizioso: e ai vizi si sarà arreso, e quindi sarà caduto più volte in peccato. Quando era giovane, certo, prima della conversione: e, appunto, “nei peccati”, come confessa egli stesso nel suo mirabile Testamentum. Ma anche quando imparò a respingere il peccato, le sue inclinazioni viziose rimasero. E ne aveva tante. La sua testimonianza di santo ha speciale merito per questo. Aveva senza dubbio un carattere superbo e vanaglorioso: sognava di diventare un cavaliere e un “gran principe”: e la sua stessa generosità - in sé una virtù - era strettamente connessa con il vizio dell’orgoglio, della vanagloria, della prodigalità. Sentiva molto forti, in lui, le esigenze e le tensioni di carattere sessuale: alle donne pensava spesso in gioventù, ne ha si può dire con certezza carnalmente conosciute alcune, magari parecchie (all’inizio del suo cammino di santità aveva già passato al ventina d’anni). Molti episodi che di lui si narrano ne sono testimonianza: quello del desiderio sessuale che combatte rotolandosi nella neve e facendone dei pupazzi (un buon metodo per inibire la circolazione periferica sanguigna); o quello della prostituta incontrata durante la crociata e da lui invitata a sdraiarsi su un letto di carboni ardenti; o, ancora, la predica muta alle “signore” di San Damiano, nella quale con una specie di danza rituale confessa che la penitenza e l’astensione dalla loro compagnia sono il solo rimedio per le tentazioni che ancora prova. Tutti questi episodi provano quanto dura fosse la fatica che egli doveva fare per controllare i suoi impulsi sessuali. Era un vanaglorioso, che da giovane avrebbe voluto esser cavaliere e principe: e sovente cantava “in francese” come un trovatore, oppure ostentava toppe di ricche stoffe colorate cucite a rammendare il suo povero saio sino a farlo sembrare una specie di Arlecchino. Amava il cibo e il vino. Invitato sovente a banchetto, Francesco accettava pur esercitando su di sé un forte e costante controllo: fino a un certo punto del resto, in quanto la sua regola gl’imponeva di mangiare tutto quel che gli fosse stato posto dinanzi (per cui, se lo invitavano come spesso accadeva a una mensa signoriale, tanto meglio!). D’altronde il vizio della gola si faceva sentire, magari insinuandosi nel naturale bisogno di cibo dal quale non sempre esso è facilmente separabile. Sappiamo quindi dalle fonti che talvolta desiderava qualche cibo più raffinato, magari quando non si sentiva bene. Sembra che gli eretici càtari, suoi avversari nella propaganda religiosa, lo provocavano rinfacciandogli questo vizio: e una volta egli si fece infliggere una penitenza spettacolare perché aveva mangiato del pollo, mentre un’altra un miracolo mutò in pesce un pezzo di cappone che stava consumando. Ma arrivato alla fine della vita, sapeva benissimo quel che faceva, era gioiosamente sereno e non temeva più il peccato. Proprio in punto di morte, poté simbolicamente indulgere al “vizio della gola”, chiedendo a madonna Iacopa dei Settesoli di poter gustare ancora una volta i mostaccioli che essa usava preparargli. Quel suo estremo gesto fu un atto formalmente “vizioso” risolto in un mirabile inno di lode a Dio per le buone cose del creato che Egli ha voluto donarci. Anche per il dolce del miele, il profumo delle mandorle, l’aroma del vino: la gloria di Dio racchiusa in un mostacciolo. Laudato si’, mi Signore…