Io, lebbroso, da Francesco
La sua mano è indurita dal morbo ma è
ancora più duro stringerla, perché la lebbra fa paura. Raoul Follerau, madre Teresa... purtroppo la santità non
è moneta così corrente. Il paziente, informano i medici, non è contagioso, eppure io esito e Antonio lo
avverte. «Ho pregato tanto e continuo a pregare per quelli che non capiscono»: il morbo di Hansen gli ha
rubato anche la vista, tuttavia sembra che ci veda benissimo, non appena lo sfioro. Antonio Aste domenica
abbraccerà il Papa nel Santuario di Bonaria dove si ripeterà il famoso gesto del santo di Assisi,
probabilmente con la medesima commozione per entrambi.
«Io sono un lebbroso - racconta Antonio, seduto
nel reparto hanseniani dell'Ospedale Santissima Trinità di Cagliari - ma domenica sarò un uomo libero». Per
comprendere il senso di questa libertà bisogna cogliere il dolore estremo della solitudine, come ha fatto
l'arcivescovo di Cagliari, Arrigo Miglio. Quando l'ha incontrato gli ha preso le mani nelle mani «e non le ha
mai tolte - racconta Antonio - per venti lunghi minuti". Il lebbroso di Cagliari è uno dei malati che
abbracceranno papa Francesco nel corso della visita cagliaritana. Un abbraccio che spezza antiche catene:
«È duro vedere andare via gli amici... Io li ho visti andare via quando mi hanno internato». Antonio è stato
ricoverato nel 1950, il morbo di Hansen era più diffuso di oggi e gli ospedali erano decisamente un'altra cosa.
Lui, all'inizio, scappava attraverso i campi, facendosi largo tra i fichi d'india per raggiungere il diurno di piazza
del Carmine: evadere per farsi una doccia.
O per partecipare a una serata danzante: «Quando conoscevo
qualche ragazza fuggivo subito; non avrei sopportato sentirmi buttare in faccia "sei un lebbroso". Per questa
paura, ho smesso di uscire». La lebbra non uccide ma si prende tutto il resto. Quando se l'è presa, e nessuno
sa come, Antonio era un giovanottone arrivato nel Sulcis da Carloforte e cresciuto in miniera. Quintali di
carbone nelle braccia. «Ho lavorato anche sulle navi perché sono un po' ligure» e da come lo dice ti accorgi
che sessant'anni non sono bastati a spegnere l'accento genovese dei carlofortini. La sua stanza è una specie
di culla degli affetti - le foto di famiglia, la Juventus, le preghiere di San Francesco - ricostruiti da un gruppo di
volontari che "hanno capito", grazie all'apostolato di don Efisio Spettu, il cappellano dell'oncologico. Per
decenni, il sacerdote ha aperto le porte del reparto dimenticato, invitando i preti cagliaritani a dire Messa tra
gli hanseniani. Domenica sarebbe accanto ad Antonio se un cancro non se lo fosse portato via.
«L'abbraccio
di papa Francesco sarà il suo ultimo dono» - sorride Antonio - . Don Efisio gli ha insegnato a pregare. Una
preghiera coltivata nei lunghi silenzi, quando finivano anche i sogni di una vita normale. La preghiera di un
recluso, di un condannato a morte quotidiana, di un uomo che "non poteva" essere amato e che si è portato
sulle spalle lo stigma dell'intera società. «La lebbra si è rubata la giovinezza, all'inizio è stato normale provare
rabbia e invidia - ammette -. Negli anni Sessanta, qui c'era il padiglione dove si curava la tubercolosi. Era una
malattia molto seguita e studiata, figurarsi che la Rai offriva uno speciale servizio musicale solo a loro...
Invece dei lebbrosi non si poteva parlare. Dovevamo sparire, farci dimenticare, e pian piano ci hanno
convinto». Compirà 90 anni a fine ottobre. Il corpo, benché tradito dal bacillo e piegato dall'età, è ancora
quello di un uomo forte, che poteva saltare il muro di cinta e buttarlo giù a pugni, ma non superarlo. Il vigore
gli è tornato invece con questo Papa: «Quando l'ho sentito parlare - spiega - ho pensato che poteva capire e
abbracciare chi è emarginato. Ho condiviso il suo no alla guerra: per anni, riflettendo qui dentro, mi sono
chiesto perché gli uomini gettano soldi nelle armi invece di studiare malattie come la mia. Non capiscono a
cosa stanno rinunciando. Il Papa lo ha capito e quando lo abbraccerò gli dirò: io sono un lebbroso, ma oggi
sono un uomo libero, scelgo di uscire e di mostrarmi per chi sono». Una lucidità prodigiosa per un ex
minatore del Sulcis, sepolto vivo dal disprezzo altrui.
Mi mostra la lettera inviata a Bergoglio. Ammette di non
avere ancora "il coraggio" di pronunciare la parola "lebbra" e parla di una vita «per la quale è difficile trovare
un senso» ma «anche in questo luogo dove in molti abbiamo sperimentato il dolore estremo - scrive - si può
assaporare l'amore dei gesti semplici, una carezza, la vicinanza senza paura». Grazie a don Efisio e alle ore
trascorse a parlare con quel suo Signore ritrovato nel dolore, oggi Antonio può dire di «non provare più rabbia
per chi non mi ha stretto la mano. Mi fa più male il vedere tanti giovani perdere la vita o la libertà per un gesto
violento. Non sanno davvero quello che fanno». Il male che deforma ha trasformato il suo corpo in un
santuario di preghiera: «Ho pregato tanto in questi sessant'anni - ammette - e continuo a pregare perché la
malattia non distrugga la vita degli altri. Soprattutto, prego per quelli che non capiscono». Nessuno è escluso.(Paolo Viana - Avvenire)
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