L'impresa del bene
Raccontare soluzioni ai bisogni dei più fragili, del pianeta, ai problemi della vita quotidiana, può essere utile
Buone Notizie è il primo inserto di un quotidiano che racconta di persone che ce l’hanno fatta, di notizie positive, di uno sguardo attento sull’operato del terzo Settore, troppo spesso trascurato. Ne parliamo con la fondatrice e responsabile Elisabetta Soglio.
24 gennaio, data importante. San Francesco di Sales, patrono dei giornalisti. Lo conosci?
È un riferimento. Nella nostra diocesi, dal periodo di Martini, in cui ho iniziato il mio lavoro ad Avvenire, il patrono è stato sempre periodo di confronto tra giornalisti. Martini aveva alimentato il dibattito, anche in forma laica: un richiamo ai giornalisti sul fatto che il nostro lavoro non sia solo un riempire le pagine, ma il dare un valore ai contenuti. Con i contenuti si possono aiutare le persone a formarsi una coscienza critica e si possono aiutare anche i più fragili, gli ultimi. Se fai una corretta informazione e che racconta anche i bisogni degli ultimi, cerchi di portare avanti un servizio anche per loro, che sono coloro ai quali dobbiamo prestare più attenzione. E penso anche ai richiami di papa Francesco.
Arrivare a tutti. Francesco di Sales con i manifesti cercava di arrivare a più persone possibile. Fino a che punto l'informazione di massa influisce sulla nostra cultura?
Credo che l'informazione di massa purtroppo influisce fin troppo sulla nostra cultura. Ci dobbiamo interrogare sulla qualità dell'informazione che viene data, oggi veicolata principalmente dai social. Non si può avere un controllo capillare e di conseguenza la questione delle fake news non è solo un discorso di cattiva informazione, ma anche di cattiva formazione delle persone. Si creano pensieri distorti, con la possibilità di manipolazione del pubblico. La cultura di massa oggi corre un grosso rischio che è anche un limite: non tutti quelli che operano nella comunicazione sono come Francesco di Sales, mossi da un intento positivo, di crescita, sviluppo e aiuto delle persone. Ci sono tanti secondi fini non sempre sono puliti o trasparenti. Per questo la comunicazione di massa può costituire un pericolo.
Buone Notizie, l'inserto che hai fondato e gestisci, va in questa direzione in qualche modo. Bad news good news, le brutte notizie fanno più audience. Eppure voi state andando contro corrente. Come è nata questa scelta?
È maturata col tempo e anche all'interno di un mio percorso professionale abbastanza lungo: ho iniziato a fine anni ‘80 ad Avvenire e nel ‘94 sono arrivata al Corriere. Ci sono stati due elementi che hanno contribuito alla nascita di Buone Notizie: da parte mia, la presa di coscienza che c'era tutto un mondo completamente inesplorato: non solo del volontariato, ma di tutto il Terzo Settore, delle imprese sociali, cooperative, che stava andando molto veloce. Sono partita dai numeri, dalle indagini Istat, ho incontrato molte persone che hanno contribuito a convincermi rispetto alla necessità di riempire questo vuoto informativo e che poi sono entrati nel comitato scientifico che sostiene Buone Notizie, cito Zamagni per tutti. La mia idea è stata: portiamo questo mondo sulle pagine del Corriere, raccontiamo che esiste questa realtà, valorizzandola. Non è giusto che l’operato del Terzo Settore resti sempre nascosto: bisogna raccontarlo perché può essere generativo di altra voglia di fare altrettanto, di far parte di un'Impresa del Bene, che poi è il sottotitolo di Buone Notizie. Il secondo elemento è dipeso dal direttore Fontana. Si è convinto di dover correre questo rischio perché in ogni posto dove andavo a fare incontri, presentare libri, c'era sempre qualcuno che diceva: però ci date solo brutte notizie, raccontateci anche qualche buona notizia. Cinque anni prima non penso sarebbe stata vincente come scelta.
E perché nel 2017 potevate crederci?
Sarò sempre grata al direttore Fontana per aver fatto con me questo salto nel buio. Sono cambiati i tempi. Dopo il 2000 con l'accentuazione della comunicazione continua e sempre più negativa, martellante, dai social che i giornali cercano di riprendere per stare al passo, prevale il racconto delle cose urlate; così come in politica il modo di fare gridato, gli anatemi, le espressioni di odio. Proprio per questo motivo c'era bisogno di dare una svolta. Abbiamo studiato i modelli, il NY Times in USA, il Guardian e Financial Times. Ma in Europa non c'erano modelli simili, tranne Vita e Avvenire, ma vengono da una certa cultura. Nei giornali laici, dopo Buone Notizie sono iniziati tanti casi analoghi, con rubriche dell'Italia che ce la fa, le persone per bene, le vite dei volontari. Si è acceso un faro su queste storie e credo che il Corriere abbia contribuito e ne siamo contenti.
Papa Francesco, 2017: diffondere speranza e buone notizie. Il Papa ci ha messo lo zampino?
Per quel che mi riguarda, molto. Ho citato Martini, che nel ciclo di lettere pastorali ha dedicato spazio al tema della comunicazione; già mi interpellava molto come credente. Qualsiasi lavoro facciamo non possiamo non portar dentro il nostro credo e il nostro vissuto. Cosa che ho sempre cercato di fare. Il monito del Papa è stato molto importante, l'ho sentito mio, arrivato in un momento della vita, anche professionale, in cui sentivo il bisogno di un cambio di passo: dare sostanza e valore etico alla mia professione. Come se mi fossi detta: “ho maturato un'esperienza tale che posso cercare di rendere in maniera anche più plastica il tentativo di portare buone notizie.” Che come dice anche Bergoglio non significa nascondere le cattive notizie. Non facciamo il giornale di Alice nel paese delle meraviglie, sappiamo bene in quale realtà siamo immersi. Come si raccontano le cose che non funzionano e i problemi del nostro mondo, pandemie, morti, ruberie e non trasparenza, va raccontato anche quello che chiamiamo “esercito di bene”: persone che cercano di impegnarsi per trovare soluzioni ai problemi. Non perché sono buoni e tutti gli altri cattivi, ma persone che cercano di dare soluzioni, vanno oltre il lamento e la protesta. Abbiamo detto: raccontare queste soluzioni ai bisogni dei più fragili, del pianeta, ai problemi della vita quotidiana, può essere utile. Come diceva Giacinto Dragonetti, bisogna parlare delle virtù e dei premi. Perché raccontandole ne riconosci il valore ed è come se le premiassi, ma allo stesso modo puoi essere fonte di ispirazione di qualcun altro. Attraverso di te che lo racconti, queste storie possono far venire in mente a qualcun altro che un modello alternativo c'è. Avete appena finito The Economy of Francesco, che non è la buona economia contro la cattiva economia. Ma è la ricerca di un modello economico più attento ai bisogni degli individui, dei territori e dell'ambiente. Questo è quello che cerchiamo di fare con Buone Notizie.
Il giornalista oggi che compito ha nella società?
Proprio questo: riuscire a raccontare tutta la realtà, e quindi a trasferire il messaggio che ci sono soluzioni possibili. Ha il compito di non farsi prendere dal modo di informazione urlata, che deprime, terrorizza e non dà una fotografia reale di quello che sta succedendo intorno a noi. Oggi a maggior ragione, bisogna che la nostra categoria torni a interrogarsi sul valore etico della propria professione e del fare informazione.
In questo tempo di pandemia a maggior ragione...
La pandemia ci ha cambiati. Nel nostro caso, ci siamo interrogati anche dell'opportunità di continuare a pubblicare un inserto che si chiama Buone Notizie, in un periodo in cui continuiamo a parlare di morti, abbiamo visto le sfilate delle bare, sappiamo del problema degli anziani e delle famiglie, un Natale così diverso, sembrava surreale dire “buone notizie”. Ma abbiamo spiegato ai nostri lettori che forse c'era ancora più l'urgenza in una frase così, di dire che anche in un momento in cui ci siamo sentiti tutti scoraggiati o senza punti di riferimento, colti di sorpresa da un evento clamoroso a livello internazionale, invece era importante dire: guardate che ci sono ancora queste cose e avere il coraggio di aprire il cuore e la testa alla speranza.
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