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Vivere in colonna come Daniele Stilita

Gianfranco Ravasi - Il Sole 24 Ore Wikipedia
Pubblicato il 29-11-2020

La lettura di un libro che pare la sceneggiatura di un film, tra miracoli e pellegrini in attesa di benedizione

Si parte da Aleppo e si prosegue per poco più di 30 chilometri a Ovest fino a raggiungere uno scosceso altopiano. Lassù si ergono le imponenti vestigia di Qalat Siman, uno dei maggiori complessi architettonici dell’Oriente cristiano, ancor oggi mirabilmente conservato nelle sue strutture fondamentali, nonostante gli oltre 1500 anni di storia. Si varca un grandioso portale d’ingresso che ha a destra un battistero ottagonale, ci si avvia lungo una «via sacra» di circa 200 metri e si approda al tempio vero e proprio. In realtà si tratta di quattro chiese, ciascuna a tre navate, edifici impostati a croce latina in modo tale che tutti si affaccino su uno spazio ottagonale ove al centro si leva l’ultimo resto della colonna di 30 cubiti (15 metri circa) sul cui capitello, adattato a celletta, visse per almeno 47 anni (pare dal 412 al 459) Siman/Simeone, detto appunto lo Stilita.

La colonna, ridotta attualmente a poco più di un mozzicone col suo basamento a causa dei pellegrini che ne scalpellavano frammenti come reliquie, era la meta di semplici fedeli, di nobili, di governanti e re che venivano a consultare il santo, il quale non esitava a farli attendere per ore, prima di concludere le sue preghiere. Ancor oggi è viva in me la memoria della visita a questo stupendo complesso che comprende anche un monastero sorto successivamente. Ora, il drammatico sudario di guerra e di sangue che si è steso sulla Siria, ha reso questo ricordo ancor più nostalgico.

Il pensiero va, allora, all’ultimo film messicano di Luis Buñuel, girato nel 1964 e intitolato proprio Simon del deserto. Appollaiato sulla sua colonna, egli è oggetto di incessanti assalti di Satana che cerca di avvincerlo con le tentazioni della carne assumendo un profilo femminile provocante, oppure ingannandolo con un travestimento da Buon Pastore o ancora trasferendolo magicamente in un club di New York. Se è vero che il film è pervaso da sberleffi e sarcasmi persino blasfemi, in realtà si intuisce nettamente in filigrana l’inesausto interesse del regista spagnolo per il tema religioso. Il filone letterario e artistico sullo Stilita aveva, però, già alle spalle un suo percorso: cito solo l’ode di 220 versi dedicata a Simeone/ Simone dal poeta vittoriano inglese ottocentesco Alfred Tennyson, figlio di un ecclesiastico anglicano; oppure il componimento di un poeta «laico» come Enrico Nencioni, amico di Carducci, e infine il dialogo poetico greco creato dal grande Konstantinos Kavafis.

A questo punto, però, introduciamo un seguace di Simeone, anch’egli stilita, di nome Daniele che visse ben 33 anni in piedi sulla sua colonna presso la riva del Bosforo, tant’è vero che alla morte nel 493 «lo trovarono con le ginocchia piegate al petto, le cosce attaccate ai talloni e ai polpacci», così che a fatica dovette essere disteso con «uno scricchiolio d’ossa sì da pensare che fosse andato in pezzi», apparendo però alla fine somaticamente completo, tranne «i piedi consumati dalle infezioni e mangiati dai vermi ». Le citazioni sono desunte dalla Vita di Daniele Stilita che ora ci è offerta in un’edizione esemplare dalla studiosa Laura Franco della scuola di un importante grecista, Fabrizio Conca.

A lei dobbiamo la versione impeccabile di un testo affascinante che è un po’ come una sceneggiatura filmica con descrizioni di miracoli, e soprattutto di incontri del protagonista con personalità ecclesiastiche e politiche, con pellegrini protesi verso di lui in attesa di una benedizione o grazia, persino con prostitute, eretici e diffamatori vari, tutti radunati sotto quella colonna, simile a un palcoscenico, dal quale talora scendeva solo un cupo mutismo forse provocatorio (come nel caso della visita del patriarca costantinopolitano Gennadio). Ma alla Franco dobbiamo anche una splendida introduzione, per altro accompagnata da un apparato iconografico (c’è anche un paio di fotogrammi del film di Buñuel).

In queste pagine vengono affrontate tutte le interrogazioni spontanee che fioriscono attorno a un simile fenomeno ascetico, accostato imprudentemente al cosiddetto «fallobatismo» evocato da Luciano di Samosata, un culto che supponeva l’ascensione di sacerdoti pagani due volte l’anno su una colonna a forma di fallo a Gerapoli in Anatolia per propiziarsi le divinità. In verità, lo stilitismo è radicalmente differente e Laura Franco ne identifica accuratamente le caratteristiche e le eventuali e molteplici motivazioni. Certo è che l’aspetto bizzarro ai nostri occhi si dissolve, se si considera il rimando al Cristo innalzato sulla croce nelle sofferenze della sua agonia, un simbolo replicato nella colonna e nelle aspre prove ascetiche degli stiliti.

Naturalmente altre immagini sono coinvolte in questa tipologia, come la scala per accedere alla piattaforma e così dialogare de visu con l’eremita sospeso tra cielo e terra. L’introduzione ricostruisce anche tutte le coordinate storico-letterarie della Vita di Daniele, i suoi contenuti che comprendono le visite dell’imperatore Leone e della moglie Verina e la sorprendente attività politico-diplomatica espletata dal santo, apparentemente così remoto dalle questioni terrene, anche col successivo imperatore Zenone. C’è, persino, il colpo di scena finale del tentato golpe di Basilisco, fratello di Verina, ormai vedova di Leone: Daniele sarà costretto a lasciare la sua colonna, portato in lettiga a furor di popolo in Santa Sofia a Costantinopoli e la sua presenza, che aveva mobilitato una folla immensa, costringerà l’usurpatore a cedere. Lasciamo al lettore di conti - L’icona. Simeone Stilita il Vecchio (a sinistra) con Simeone Stilita il Giovane nuare a seguire l’intera trama di questa biografia di Daniele - non priva anche di motivi romanzeschi, godibile anche per la sua impostazione aneddotica e a micro-racconti - un’opera anonima composta poco dopo la morte del santo, quindi alla fine del V secolo.

In questo stesso secolo e in un’analoga marginalità ma con una ben diversa caratura è vissuto un altro personaggio piuttosto misterioso che, molto liberamente, poniamo a dittico in questo nostro breve viaggio nell’Oriente cristiano. Si tratta di Nonno di Panopoli («città del dio Pan»), l’attuale Achmim nell’Alto Egitto, in quella Tebaide divenuta famosa proprio per i suoi «padri del deserto», spesso eremiti come Daniele, sottoposti allo stesso ardore del sole e alle privazioni, ma anche alla fama e alla popolarità, senza però che essi scalassero colonne. Ben differente dev’essere stato il ritratto biografico di Nonno: purtroppo, però, possediamo su di lui solo lacerti enigmatici di notizie. Essi vengono accuratamente vagliati da uno studioso di letteratura greca tardoantica e cristiana, Matteo Agnosini, nella sua maestosa e finissima introduzione alla Parafrasi del vangelo di san Giovanni.

Nonno è noto per un suo imponente poema di 21.000 versi, le Dionisiache, che già nel titolo rivela la matrice classica della sua formazione, messa però al servizio del cristianesimo in un dialogo fecondo, come appare proprio nella Parafrasi che è tradotta per la prima volta integralmente in italiano, all’interno della prestigiosa «Collana di testi patristici» dell’editrice Città Nuova. La guida alla lettura e il commento approntati da Agnosini sono indispensabili per sciogliere tutti i nodi letterari, storici, tematici, ermeneutici, teologici che sono sottesi a questa sorprendente trascrizione poetica del quarto Vangelo. Per comprendere meglio questa operazione è interessante leggere, come esempio, la resa di Nonno riguardo al racconto delle nozze di Cana (Giovanni 2,1-11), anche perché la materia del miracolo di Gesù, il vino, ammicca a Dioniso. Si segua prima la spiegazione di Agnosini (nelle pagine 79-86) e poi si affronti la parafrasi originaria che è simile a un’efflorescenza colorata di temi ulteriori (tra l’altro, a proposito di cromatismi reali e non solo metaforici, oltre al vino rosseggiante, anche le rocce dell’alba di quel giorno nuziale sono «purpuree»).

di Gianfranco Ravasi, da Il Sole 24 Ore

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