Fra Paoletti: accogliere per diventare umani
La crisi dell’accoglienza è culturale e spirituale
Abbiamo visto che la minorità (“luogo di incontro e di comunione con Dio, con tutti gli uomini e le donne e con il creato”, secondo Papa Francesco), si concretizza nel farsi prossimo all’altro e sfocia nell’accoglienza, compimento della minorità per quanto riguarda l’amore vissuto. Ora ci soffermiamo sull’accoglienza come cifra e grembo del nostro humanum. Tutti siamo accolti prima di accogliere, siamo ospitati prima di diventare ospitanti e ospitali. Molto superiore alla semplice ospitalità, l’accoglienza è sempre reciproca e generativa e apre alla comunione. Più che un tema all’interno dell’humanum, ci appare come la sua forma originaria. L’emergenza provocata dal Covid 19 ha richiesto proprio di modificare il modo di interagire, quindi di accogliere e accoglierci: a distanza di sicurezza, senza toccare né lasciarsi toccare, con la sanificazione continua, con le mascherine che impediscono di vedere l’espressione del volto, … tutte attenzioni giuste e necessarie, che però inferiscono con l’accoglienza e sembrano renderla meno personale e personalizzante. La contingenza pandemica è quasi emblematica delle difficoltà di accogliere; ma non è certo l’unica causa della crisi dell’accoglienza, che ha radici ben più profonde. Come spiegare altrimenti il fatto che, alcuni anni fa, in Francia, dei cittadini furono condannati per “delitto di ospitalità” (cioè per aver accolto, nutrito e ospitato per qualche giorno dei clandestini, usciti dal centro d’identificazione di Ventimiglia)?
La condizione di straniero - visitatore, immigrato, rifugiato - è oggi un effetto inevitabile della globalizzazione, e in una civiltà sana e armonicamente sviluppata dovrebbe tradursi in una sorta di “diritto di visita e di accoglienza”: da questo soprattutto si verifica la civiltà e la maturità di un paese. Se l’ospitalità diventa un ‘delitto’ e non viene riconosciuta come ‘diritto’ (non dimentichiamo che, in altri tempi e luoghi, anche molto prima e molto fuori del cristianesimo, era un ‘dovere’, anzi un sacro dovere!), significa che il rapporto con l’altro, con ogni altro, si sta deteriorando e va ripensato alla radice. A questo riguardo una riflessione antropologico-filosofica dovrebbe precedere quella teologica, poiché è in gioco l’humanum in quanto tale. Come conciliare la normale esigenza di sicurezza con il principio di accoglienza fraterna? La realtà dell’immigrazione, che è sempre esistita ma sta diventando sempre più ‘strutturale’ fino a cambiare volto e funzionamento della società, rivela che la crisi dell’accoglienza - come tutta la crisi che stiamo vivendo - è culturale e spirituale, prima che sociale e politica. È in crisi la stessa visione dell’uomo che non riconosce la verità fondativa e fondante dell’humanum.
In alcuni momenti e in alcune forme di pensiero si assiste a una vera e propria regressione della civiltà che, secondo Jean Daniélou, «…ha fatto un passo decisivo, forse il passo decisivo, il giorno in cui lo straniero, da nemico (hostis) è diventato ospite (hospes)». L’ospitalità non è solo una forma di interazione sociale, ma è la forma propria dell’umanizzazione. Perché accogliere, dunque? Semplicemente - e con fondamento - perché si è umani, per umanizzare la propria umanità (oltre che, naturalmente, per esigenza fondamentale della prossimità, per rispondere al bisogno e alla sofferenza dell’altro). Abbiamo detto che l’accoglienza è più dell’ospitalità, ma una breve rivisitazione della semantica dell’ospitalità è comunque necessaria per capire come possa trasformarsi in ostilità. Dalla radice indoeuropea ost/osp derivano vocaboli come ospedale (anticamente ricovero per poveri e bisognosi, oggi luogo di cura), ospizio, ostello, hotel (un tempo alloggio, dimora privata, poi ‘albergo’). La radice ha un’ambiguità e una conflittualità così forti che facilmente può invertirsi. L’hospes (il cui significato è sia l’ospitante che l’ospitato) si trasforma in hostis (= lo straniero visto come almeno potenzialmente ostile, come un pericolo). I due significati, per noi ormai distanziati, sono accomunati in origine dalla percezione della diversità: hostis/hospes è colui che viene da lontano. Che sia ben disposto o maldisposto è una differenziazione successiva. Inizialmente hostis indica tutte le figure di alterità, non di ostilità. Nel primo significato, più arcaico, hostis indica una relazione non all’interno della stessa cultura. Solo in una fase successiva della civiltà assume una connotazione antagonistica, fino a far diventare lo ‘straniero’ un ‘nemico ‘. Quando hostis comincia a significare nemico, dalla stessa radice *ghosti viene formato il termine hospes per indicare l’ospite. L’ambivalenza conflittuale si scioglie: hostis indica solo lo straniero con cui si ha un rapporto di belligeranza, mentre hospes è quello con cui si stabiliscono rapporti di alleanza e di ospitalità reciproca.
Alla radice della conflittualità è dunque da riconoscere una “stranierità” come diversità irriducibile nei confronti dell’altro da me e, ancora più profondamente e realmente, dell’altro in me. Noi per primi siamo stranieri a noi stessi: stranieri all’esterno, nella nostra stessa cultura, ma oltre a questo ospitiamo al nostro interno una “stranierità” che facciamo fatica ad accettare e ad integrare. Integrazione faticosa ma necessaria. Solo interiormente unificati possiamo accoglierci e accogliere l’altro come dono. Ognuno di noi in fondo è ospite di sé stesso: l’altro è già dentro di noi. Occorre sempre riconoscere e ricordare che c’è una forma originaria di accoglienza ‘ricevuta’ che ci riguarda tutti, senza eccezione, in quanto creature accolte e portate in grembo da una madre – è questa la prima accoglienza che riceviamo e che determina lo sviluppo successivo, non solo fisicamente –, e poi venute alla luce con il bisogno vitale di trovare affetto, sollecitudine, cura, comunione. In estrema sintesi: l’accoglienza è la relazione che permette la vita. Il paradigma dell’accoglienza dice che l’uomo non è “gettato nel mondo” (l’espressione è di Martin Heidegger), ma è accolto nel mondo; e vive autenticamente nella misura in cui diventa responsabile, ossia capace di rispondere al bisogno dell’altro. Ricordiamo che ‘cultura’ è, letteralmente, coltivazione dell’humanum e si fonda sulla capacità originaria dell’accoglienza. Francesco d’Assisi compie un cammino interiore che implica riconoscere e accogliere la conflittualità, la “stranierità” nella sua cultura e in se stesso, attraverso un processo di conversione che lo porta a farsi prossimo ad ogni altro che incontra, riconoscendolo e accogliendolo (dopo l’iniziale resistenza) come dono, come fratello. La sua scelta evangelica di essere ‘minore’ è veramente “luogo di comunione” con l’alterità, con la stranierità, in ogni forma (dal lebbroso ai ladri di Montecasale, dal Sultano al lupo…). Riesce ad approssimarsi a tutti quelli che incontra sul suo cammino, consapevole di essere “straniero e pellegrino” in questo mondo. Nei vari modi del suo farsi presente, la stranierità è cammino di eternità nella storia.
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