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Benedetto XVI ricorda Giovanni Paolo II: fu uomo di misericordia

SALVATORE CERNUZIO Ansa
Pubblicato il 15-05-2020

Lettera del Papa emerito alla Chiesa polacca nel centenario della nascita di Wojtyla

«In un momento in cui la Chiesa soffre di nuovo per l’assalto del male», Giovanni Paolo II «è per noi un segno di speranza e di conforto». Nel centenario della nascita del Papa polacco è il suo diretto successore, Benedetto XVI, a fare un ritratto appassionato di Wojtyla, uomo e Pontefice, esempio di misericordia e non un «rigorista della morale», per il quale si discute se concedere l’appellativo di «Magno».

In una lunga lettera in tedesco consegnata al cardinale Stanislaw Dziwisz, per anni segretario particolare di Giovanni Paolo II, e all’intera Chiesa polacca in occasione dell’anniversario del 18 maggio, il Papa emerito condivide aneddoti e memorie di quegli anni di pontificato, quando sedeva alla scrivania di prefetto della Congregazione della Dottrina della Fede.

I ricordi si snodano a partire dall’elezione di Wojtyla, il 16 ottobre 1978, avvenuta in un momento in cui «la Chiesa si trovava in una situazione drammatica». Drammatica perché all’epoca «le deliberazioni del Concilio furono presentate in pubblico come una disputa sulla fede stessa, che sembrava così priva del suo carattere di certezza infallibile e inviolabile», ricorda Ratzinger, che riporta le parole di un parroco bavarese che sintetizzano la sensazione generale che serpeggiava all’interno della Chiesa: «Alla fine siamo caduti in una fede sbagliata».

C’era l’idea «che nulla fosse certo più, che tutto potesse essere messo in discussione», ulteriormente alimentata «dal modo in cui fu condotta la riforma liturgica». «Alla fine sembrava che anche nella liturgia tutto si potesse creare da solo - scrive il Papa emerito -. Paolo VI condusse il Concilio con vigore e decisione fino alla sua conclusione, dopo la quale affrontò problemi sempre più difficili, che alla fine misero in discussione la Chiesa stessa. I sociologi dell’epoca paragonavano la situazione della Chiesa a quella dell’Unione Sovietica sotto Gorbaciov, dove nella ricerca delle riforme necessarie l’intera potente immagine dello Stato sovietico alla fine crollò».

Così, dinnanzi al nuovo Successore di Pietro si presentò di fatto un compito assai arduo. Da subito, però, quel prelato polacco ancora sconosciuto al mondo, che aveva conosciuto gli orrori delle dittature e imparato la teologia non solo sui libri ma anche dal «contesto» in cui viveva, rivelò «la capacità di suscitare una rinnovata ammirazione per Cristo e per la sua Chiesa». Egli fu «un rinnovatore e liberatore della Chiesa», questo perché, osserva Benedetto, «il nuovo Papa proveniva da un Paese dove il Concilio era stato accolto in modo positivo». E lui stesso aveva partecipato al Vaticano II, facendone «la scuola di tutta la sua vita e del suo lavoro».

Il fattore decisivo di Wojtyla «non fu quello di dubitare di tutto, ma di rinnovare tutto con gioia». Lo dimostrarono i 104 «grandi» viaggi pastorali che lo condussero in tutto il mondo per predicare il Vangelo «come una notizia gioiosa», come pure le 14 encicliche che presentarono «in modo nuovo la fede della Chiesa e il suo insegnamento umano». Cosa che, «inevitabilmente», afferma Benedetto XVI, «suscitò opposizione nelle Chiese d’Occidente piene di dubbi».

Nella missiva Joseph Ratzinger rivela pure un aneddoto relativo alla Festa della Divina Misericordia, istituita dal Papa polacco e a lui tanto cara per il legame con la santa sua conterranea, la suora di Cracovia Faustina Kowalska. Dopo alcune consultazioni, Giovanni Paolo II aveva previsto che la Festa si tenesse nella Domenica in albis, ma prima di prendere una decisione definitiva chiese il parere della Congregazione per la Dottrina della Fede. «Demmo una risposta negativa - rammenta l’ex prefetto - ritenendo che una data così importante, antica e piena di significato come la Domenica in albis non dovesse essere appesantita da nuove idee. Per il Santo Padre, accettare il nostro “no” non fu certo facile. Ma lo fece con tutta umiltà e accettò il nostro secondo “no”. Infine, formulò una proposta che pur lasciando alla Domenica in albis il suo significato storico, gli permise di introdurre la misericordia di Dio nella sua accezione originale».

Non fu quello l’unico caso «in cui rimasi impressionato dall’umiltà di questo grande Papa, che rinunciò alle sue idee favorite quando non c’era il consenso degli organi ufficiali, il quale – secondo l’ordine classico delle cose – si doveva chiedere», confida Benedetto XVI. «Quando Giovanni Paolo II esalò l’ultimo respiro in questo mondo, si era già dopo i primi Vespri della Festa della Divina Misericordia. Ciò illuminò l’ora della sua morte: la luce della misericordia di Dio rifulse sulla sua morte come un messaggio di conforto».

Ma la misericordia caratterizzò l’intero suo pontificato. «Contrariamente a quanto talvolta si dice, Giovanni Paolo II non è un rigorista della morale», afferma Ratzinger. «Dimostrando l’importanza essenziale della misericordia divina, egli ci dà l’opportunità di accettare le esigenze morali poste all’uomo, benché non potremo mai soddisfarlo pienamente. I nostri sforzi morali vengono intrapresi sotto la luce della misericordia di Dio, che si rivela essere una forza che guarisce la nostra debolezza». È su questo punto che il Papa emerito intravede «l’unità interiore del messaggio di Giovanni Paolo II e le intenzioni fondamentali di Papa Francesco».

Implicitamente Benedetto XVI risponde poi alle critiche di coloro che sottolineano come il predecessore sia stato beatificato in tempi record, senza uno studio adeguato ma assecondando il desiderio della folla che alla sua morte gridava «Santo subito!». Per quanto riguarda Giovanni Paolo II, entrambi i processi di canonizzazione e beatificazione «sono stati eseguiti rigorosamente secondo le regole vincolanti», assicura.

Poi entra nella questione se per Karol Wojtyla sarà accettato o meno l’appellativo «Magno», possibilità discussa anche «in vari circoli di intellettuali». Anzitutto, il Papa teologo definisce correttamente il termine “magno”, adottato nei quasi duemila anni di storia del papato solo per due Pontefici, Leone I e Gregorio I, con «un’impronta politica». Nel senso che, «attraverso i successi politici, si rivela qualcosa del mistero di Dio stesso».

«Leone Magno - spiega Ratzinger -, in una conversazione con il capo degli unni Attila, lo convinse a risparmiare Roma, la città degli apostoli Pietro e Paolo. Senza armi, senza potere militare o politico, riuscì a persuadere il terribile tiranno a risparmiare Roma grazie alla propria convinzione della fede. Nella lotta dello spirito contro il potere, lo spirito si dimostrò più forte. Gregorio I non ottenne un successo altrettanto spettacolare, ma riuscì comunque a salvare più volte Roma dai Longobardi – anche lui, contrapponendo lo spirito al potere, riportò la vittoria dello spirito».

Confrontando la storia di entrambi con quella di Giovanni Paolo II, il Papa che contrastò il comunismo in Europa, «la somiglianza è innegabile», afferma Benedetto XVI. «Anche Giovanni Paolo II non aveva né forza militare né potere politico. Nel febbraio 1945, quando si parlava della futura forma dell’Europa e della Germania, qualcuno fece notare che bisognava tener conto anche dell’opinione del Papa. Stalin chiese allora: “Quante divisioni ha il Papa?”. Naturalmente non ne aveva. Ma il potere della fede si rivelò una forza che, alla fine del 1989, sconvolse il sistema di potere sovietico e permise un nuovo inizio. Non c’è dubbio - sottolinea - che la fede del Papa sia stata un elemento importante per infrangere questo potere».

La questione se l’appellativo “magno” sarà accettato o meno, per Benedetto, deve essere dunque «lasciata aperta»: «È vero che in Giovanni Paolo II la potenza e la bontà di Dio è diventata visibile a tutti noi. In un momento in cui la Chiesa soffre di nuovo per l’assalto del male, egli è per noi un segno di speranza e di conforto». (Vatican Insider)

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