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Tra gli spettri di Lesbo senza più pane

Stefania Di Lellis Ansa - Graham Wood
Pubblicato il 11-09-2020

Vagano e dormono lungo i cigli delle strade dell'isola greca

Su un muro restato in piedi nel campo dei fantasmi qualcuno ha scritto: "Libertà di movimento".

Lo leggi attraverso il filo spinato e una rete di ferro annerita dal fuoco. I pochi rimasti qui non sanno dire se la mano che ha tracciato quelle parole con lo spray sia una di quelle che hanno dato fuoco a Moria martedì sera. In ogni caso quelle fiamme ai 12mila fuggiti dal campo di Lesbo - il più grande d'Europa - non hanno regalato né libertà né movimento.

Il sole li condanna all'immobilità, si difendono con coperte e buste di plastica legate al guardrail della strada tra Moria e Kara Tepe, un altro centro considerato il volto umano dell'accoglienza ai migranti. Cammini per centinaia di metri e da quei teli vedi solo spuntare scarpe o piedi nudi. Uomini, donne, bambini. E ancora bambini.

È come se qualcuno avesse tolto l'audio. Sono fermi e muti, aspettano un verdetto. O forse hanno solo troppa fame e troppo caldo per muoversi e parlare. Mi avvicino a una delle coperte. Ecco le mani di una ragazzina. Ha lo smalto rosa su un'unghia e azzurro sulle altre, come le mie bambine quando giocano a fare le ragazze. Le faccio i complimenti. Lei sorride, mi dice che si chiama Fatimeh e che sa un po' di inglese, lo ha imparato dai volontari a Moria.

Ha undici anni e viene dall'Afghanistan. «Ma là - giura la madre usando la figlia come interprete non ci torniamo». Ora che vuoi fare? Smette di guardarmi. E anche di sorridere.

La gente scappata da Moria si è accampata come poteva su questa strada. All'inizio erano fuggiti in seimila, poi i roghi si sono moltiplicati nel campo e anche gli altri sono andati via. «Ancora ieri questi alloggi erano intatti - spiega un operatore dell'Unhcr mostrando tre file di letti carbonizzati - ci sono stati ulteriori incendi e ora è tutto distrutto». Dieci metri più su una nuova fiammata si alza proprio adesso, cinque o sei uomini corrono via da una collinetta di rifiuti indicando tre bombole del gas disastrosamente vicine al fuoco. «Via, via, via!». Un ragazzo li fissa e non si muove. Ai suoi piedi un pacchetto di sigarette con la scritta "Nuoce gravemente alla salute". Un padre continua a fare la doccia al figlio piccolo sotto il getto d'acqua che zampilla da una conduttura rotta. Ha fatto la fila per questo privilegio, i rubinetti qui sono a secco.

Dove un tempo si vedeva umanità a perdita d'occhio, si contano solo spettri che si aggirano tra le rovine. Fares e tre suoi amici sorridono: hanno trovato un congelatore senza sportello. L'hanno riempito con tre coperte, delle pentole e un grosso peluche. Lo trascinano insieme per unirsi con il loro piccolo bottino ai disperati della strada. Che ci fate? «Vogliamo andare in Germania».

La popolazione locale di Lesbo ha bloccato una delle principali strade di accesso a Moria. L'avrebbero dovuta percorrere le ruspe per andare a rimuovere le macerie e consentire così di rimettere in piedi l'accampamento. «Ci hanno preso in giro per anni, ora basta. Moria non deve riaprire», dice tirandosi giù la mascherina con la bandiera nazionale Costantino Bumbas, de l partito "Soluzione greca". «C'è crisi economica, il turismo è massacrato e ora il Covid...(Repubblica)

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