Hugh O'Flaherty, il sacerdote che salvò 6.500 vite dal nazismo
Oltre 6500 vite umane salvate dalla furia nazista. E’ l’incredibile frutto dell’opera silente e coraggiosa condotta negli ultimi anni della Seconda Guerra Mondiale da mons. Hugh O’Flaherty e dalla rete segreta da lui coordinata, la Rome Escape Line, costituita da uomini e donne che in incognito agevolarono la fuga, il nascondimento e la sopravvivenza di migliaia di prigionieri di guerra e civili. In visita ai soldati alleati prigionieri di guerra Irlandese, nato a Cahersiveen nel 1898, e divenuto sacerdote a Roma nel 1925, presto fu nominato vice-rettore del collegio di Propaganda Fide e quindi entrò nel servizio della diplomazia vaticana in Palestina, ad Haiti e Santo Domingo e infine in Cecoslovacchia.
Dal 1938 prese servizio al Sant’Uffizio, abitando nel Collegio Teutonico, dentro lo Stato della Città del Vaticano: una posizione che agevolò lo svolgimento della sua preziosissima opera. “Tutto - ricorda Kieran Troy, membro della Hugh O’Flaherty Memorial Society - ebbe inizio quando, su mandato della Santa Sede, O’Flaherty andava a far visita nei luoghi in cui i nazisti detenevano i soldati alleati di lingua inglese. Ai prigionieri il prelato portava sempre libri, sigarette, cioccolato, un sorriso, una parola di conforto e soprattutto la speranza di ritrovare la libertà”. Il sacerdote era solito prendere nota dei nomi dei detenuti su un foglio che poi consegnava alla Radio Vaticana affinchè li divulgasse allo scopo di raggiungere e confortare i loro parenti nei paesi di provenienza.
"Faccio solo il mio dovere" Tra l’armistizio dell’8 settembre 1943 e la liberazione del 4 giugno 1944, mons. O’Flaherty, noto come la “Primula Rossa del Vaticano”, insieme ai suoi collaboratori, anche a costo della vita, riuscì a salvare migliaia di prigionieri di guerra, ebrei e antifascisti: procurò loro documenti falsi e ripari presso conventi, monasteri e appartamenti nella capitale e nella campagna circostante. “Faccio solo il mio dovere” commentava a chi lo lodava per il coraggio della sua impresa o gli esprimeva gratitudine. “Dio non ha nazionalità”, spiegava a quanti invece gli chiedevano ragione del soccorso prestato a tutti: ad americani, inglesi, anche appartenenti alla religione ebraica. Una rete segreta per salvare vite umane Tutto doveva svolgersi segretamente: a cominciare dai nomi dei membri della rete, rigorosamente in codice. “Golf” era il soprannome assegnato a mons. Hugh, appassionato giocatore di questa disciplina sportiva, oltre che abile tiratore di boxe. Fu un maestro nei travestimenti, tanto che più volte riuscì a fuggire ai controlli della Gestapo, la polizia segreta della Germania nazista capitanata dal comandante Kappler.
Memorabile l’episodio in cui O’Flaherty, recatosi a palazzo Doria Pamphilj in via del Corso per ricevere denaro dal principe, dovette travestirsi da carbonaio per eludere un blitz dei soldati tedeschi. Quegli accordi presi ai piedi della Pietà di Michelangelo Oltre la striscia bianca che divideva in due parti Piazza San Pietro, tracciata dai nazisti per delimitare il confine italiano, si era al sicuro. Il sacerdote, che stazionava spesso sotto l’Arco delle Campane, divenne però un sorvegliato speciale. La polizia presidiava ogni angolo di Roma. Gli accordi, lo scambio di documenti o delle informazioni sugli appartamenti sicuri presso cui far riparare i perseguitati dal regime, avvenivano sovente all’interno della Basilica Vaticana, ai piedi della Pietà di Michelangelo o nei pressi dell’Altare della Cattedra.
“I suoi superiori - racconta ancora Kieran Troy – erano a conoscenza del suo operato, e sono sicuro che anche Papa Pio XII fosse informato delle persone nascoste in Vaticano o dei tanti passaporti stampati per salvare vite umane”. Finita la guerra il sacerdote, morto nel 1963 in Irlanda, si recò regolarmente a Gaeta per visitare in carcere Kappler, il quale poi si convertì al cattolicesimo. Molte le onorificenze ricevute da O’Flaherty, sebbene la sua opera resti ancora poco nota. Nobile scopo della Hugh O’Flaherty Memorial Society è quello di riportarla alla luce, rintracciando quanti a vario titolo presero parte alla Rome Escape Line. Tra loro c’era Antonio Giustini, capo di una banda di partigiani che operava tra Viterbo e il quartiere romano di Prima Porta. Il nipote Anthony Giustini, che oggi vive negli Stati Uniti, ricorda le corse del padre, Fernando, allora tredicenne, tra Roma e la vicina campagna di Corchiano. Quella staffetta valse la salvezza di decine di prigionieri politici. Per il 2019, a 75 anni dalla liberazione di Roma, la Hugh O’Flaherty Memorial Society ha organizzato un significativo raduno nella capitale italiana, un ritorno emozionante sui luoghi della Primula Rossa.
Paolo Ondarza, Vatican News
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