Don Giacomo, quel prete di periferia che combatte la 'ndrangheta con la bellezza
Quando ad accoglierti trovi un signore dai modi pacati e gentili, assorbito da mille impegni, non è proprio difficile dedurre che la conversazione che stai per intavolare non sarà la solita intervista, ma uno scambio verbale rapido ed essenziale, conciso e diretto. E difatti così è. Don Giacomo Panizza è bresciano, poche parole e tanti fatti. Nel 1976 ha fondato a Lamezia Terme, in Calabria, Progetto sud, una comunità autogestita per persone disabili, ospitata dal 2002 in un palazzo confiscato a una cosca locale.
Indomabile e determinato, don Giacomo non ha mai esitato a fare la voce grossa contro la ‘ndrangheta. Sotto scorta per le numerose e continue minacce e gli attentati subiti, continua il suo modus operandi andando dritto per la sua strada perché: «È a fronte di tutte queste vicissitudine che si realizza, giorno dopo giorno, la mia vocazione sacerdotale; non posso certo fermarmi».
Operare senza piegarsi è per lei un imperativo categorico.
«L’operare è un agire. L’agire va dietro alla coscienza che – se retta e umana – ti sprona a raggiungere obiettivi umanizzanti. Comprendi così che non c’è da piegarsi o da tornare indietro, ma di proseguire con serenità verso i traguardi di solidarietà, di giustizia e di collaborazione. Gli obiettivi sono la forza, e quando cadiamo a terra ci aiutano a rialzarci».
Immaginava, da ragazzino, una vita così?
«No, non ci pensavo affatto. Ho iniziato a studiare da prete soltanto a 23 anni. Prima avevo in mente un futuro diverso, con gli amici, la fidanzata e con quello che vedevo nella provincia di Brescia: il lavoro in fabbrica».
Qual è stata la molla che ha scatenato in lei la furia della conversione?
«Diciamo che a un certo punto ho iniziato a vedermi prete, con la libertà di fare tutte le cose che mi piaceva fare».
C’era nel giovane Giacomo qualche sussulto di impegno civile?
«Erano gli anni Sessanta. Lavorando in fabbrica, quei sussulti li ho vissuti in prima persona. Quegli anni di rivolta hanno preparato tutti quelli della mia generazione a credere che qualcosa era davvero possibile. Siamo stati in tanti a pesare di fare un salto, che non era di arricchimento ma di giustizia».
Il 1968 l’ha dirottata al servizio degli ultimi?
«Sì, mi ha permesso di mettermi al loro servizio per aiutarli a non piegarsi, a vivere a testa alta – anche se disoccupati o disabili – per ritrovare la dignità. Il mio non è stato e non sarà mai un aiuto di elemosina, ma uno stimolo a non credere e a non arrendersi a chi inculca in loro “la consapevolezza” di essere diversi o inferiori».
Percorrendo la via della solidarietà, è giunto in Calabria. Ha conosciuto così il mondo della criminalità.
«Sì, e non pensavo fosse così esagerato, ma ho scelto di restarci per continuare a fare cose belle, insieme a tantissima gente di Calabria, per riaffermare gli ideali di giustizia».
La sua prima reazione all’intimidazione?
«Di sdegno. Quando sono venuti a chiedere il pizzo nella fabrichetta che avevamo messo su con i disabili, ho faticato a crederci. Mi sembrava impossibile. E, mi permetta di dirlo, mi ha fatto davvero schifo».
E in quel momento, pervaso da una foga coraggiosa…
«Ho reagito. Non so se è stato coraggio, ma non sopportavo quella cosa. Mi è sembrato normale, umano, reagire per affermare il sogno di pace e libertà. Probabilmente non sarei stato io se mi fossi arreso»
In quella che lei definisce “fabrichetta” si lavorava alla valorizzazione delle abilità diverse.
«Sì. I disabili hanno capacità sviluppate nella sofferenza, che riescono a tradurre in proposte di bellezza. Mi auguro davvero che in futuro sempre più giovani possano comprendere il valore del saper tendere la mano verso chi vive in difficoltà».
Poche settimane fa, nel ricordare Peppino Impastato e Giovanni Falcone, molti giovani sono scesi in piazza. Lo considera un segnale di speranza?
«Se il grande ideale della varie giornate amichevoli è autentico non si spegne. I giovani hanno le antenne aperte sulla dignità e sugli ideali, andrebbero però aiutati a capire; non devono essere lasciati soli a credere e a lottare».
Manca qualcosa nelle istituzioni educative?
«Sì, ci sono dei buchi enormi che non riguardano soltanto la famiglia, ma anche la scuola e la chiesa. Si alleva ma non si educa. Il problema è proprio questo. La ‘ndrangheta – che contrasta l’educazione – non ha paura di me, ma teme che il mio “no” si allarghi, crei contagio ed educhi sempre più giovani».
Don Giacomo, lei ha paura?
«Ho paura, certo. Ma voglio continuare a vivere il mio sogno di bellezza in Calabria, perché prima o poi passerà anche la paura».
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