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Se il passato smette di insegnare

Francesco Rigatelli Paolo Salmoirago - Ansa
Pubblicato il 18-02-2021

Nel vuoto crescono nuove ideologie, miti di persecuzione come il negazionismo per i vaccini

C' è una caratteristica da raccontare subito di Adriano Prosperi, emerito di Storia moderna alla Normale di Pisa, ed è il tono di voce. Quello di tutti gli uomini ponderati. Si riconoscono dai loro pensieri, che prima di prendere forma in parola sembrano attraversare biblioteche immaginarie, ideali corrispondenze di quelle reali dei loro scaffali. Nel caso di Prosperi i libri sono soprattutto quelli sul mondo cattolico e contadino. Ora da Einaudi è uscito Un tempo senza storia, scritto durante la pandemia «riflettendo sulle pestilenze del passato» quando già si usavano parole come «quarantena», «lazzaretto», «untore» e strumenti come le maschere dei medici. «E scopriamo che la nostra non è stata un' innocua amnesia», scrive. «Se oggi mancano posti letto è perché sono stati tagliati i finanziamenti pubblici, chiusi i piccoli ospedali, ridotto il personale sanitario, si è dato impulso a faraoniche case di cura private».

 

Nel libro definisce la memoria come «la coscienza che il mondo ci è stato dato per trasmetterlo alle generazioni future». La pandemia è anche frutto di ignoranza storica?

«Sì, la Sars risale al 2002 e non è servita a niente. Ora la magistratura indaga questi difetti di memoria sul piano penale. Il nostro sguardo è sempre rivolto al futuro in un' ottica di crescita continua. Anche la sindrome del complotto, che cerca la colpa cinese, dimentica che in Italia c' è stata la peste».

Non conosciamo la storia?

«L' arretratezza cinese una volta era quella italiana e guardando al mondo il virus è più antico dell' uomo. Ora la globalizzazione sposta il baricentro della storia verso l' Asia, che è destinata a sopravanzarci non senza colpi d' arresto».

Perché si conosce meno la storia?

«Nel '900 Hobsbawm riteneva l' esperienza storica legata alla battaglia politica. Nell' 800 Droysen la definiva utile a formare la classe dirigente e considerava il politico uno storico pratico. Oggi la si usa per scoprire i misteri. Io sono del 1939, anni di forte legame con la realtà, eredi di un passato e in attesa di giustizia e libertà».

Poi cos' è successo?

«Il crollo dei partiti storici e la mondializzazione del capitale hanno mutato il paesaggio. Le politiche nazionali hanno perso efficacia e le persone si sono nazionalizzate. Il sovranismo non è altro che nostalgia per un mondo perduto. La politica può illudere di risolvere i problemi, ma non ha le leve per farlo. È la crisi della democrazia».

Siamo più ignoranti?

«No, ma sentiamo meno da dove veniamo e dove vogliamo andare. Il futuro dei giovani è compromesso, perché la rivoluzione digitale ha cambiato il mercato del lavoro trasformando ognuno in un imprenditore di sé stesso, di fatto con poche prospettive».

L' era digitale ha anche dei lati positivi?

«L' accesso enorme alla conoscenza, la possibilità di viaggiare, di fare meno fatica fisica e di godersi la vita sono grandi conquiste, ma il rischio è una giovinezza senza età con la perdita di responsabilità famigliari e sociali. C' è inoltre il paradosso del capitalismo della sorveglianza, come lo definisce Shoshana Zuboff, per cui le tecnologie che ci aiutano al contempo ci controllano».

La minor corrispondenza tra dottrine politiche e partiti è dovuta alle idee che sono vecchie o alla società mutata?

«Direi a entrambe. Esiste una convergenza tra la perdita di senso del passato e quella dell' avvenire, ora ancor più incerto per la pandemia. Prendemmo poco sul serio la fine della storia teorizzata da Francis Fukuyama, mentre ora è una sensazione diffusa. E nel vuoto si diffondono nuove ideologie che sono miti di persecuzione, come il negazionismo per i vaccini e l' antisemitismo della setta QAnon».

La scomparsa della questione di classe complica la situazione?

«Certo, dopo anni di passioni anche estreme temi come rapporti di classe, uguaglianza e libertà restano sfocati in un mondo dove le persone non trovano un investimento di speranza se non individuale».

È il motivo per cui la sinistra non trova pace?

«Senza dubbio è la grande vittima. I movimenti populisti hanno molte idee confuse sul tema, e qualche volontà benefica, ma sono privi dell' istinto di lotta contro lo stato esistente per raggiungere un obiettivo. Questo modo di pensare è sparito e insieme a esso la storia, che viene scambiata per una pedagogia dei buoni sentimenti, mentre è anche fiumi di sangue versati. Ecco perché resta fondamentale ricordare l' orrore della Shoah e considerare come una sua ripetizione la tragedia degli immigrati».

Veniamo alla destra italiana prima liberale, poi fascista e post fascista. Si è persa la sua identità?

«Si è persa l' occasione risorgimentale di una rivoluzione nazionale. Per Ippolito Nievo senza le masse sarebbe stato un fallimento, ma l' élite liberale si accordò con i Savoia per opporsi alle idee di Mazzini e di Marx. Il fascismo poi arrivò come una controrivoluzione preventiva nei confronti dei contadini sfruttati e mandati in guerra. Nel 1943 con prova di trasformismo l' Italia si definì cobelligerante proseguendo gli equivoci».

Come andrebbe risolto quel passato?

«Per esempio capendo che nessuna nazione europea può contare da sola nel mondo. In questo senso, la partecipazione della destra al governo Draghi è un' occasione storica». (La Stampa)

 

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