Quando il "politically correct" sconfina nel fondamentalismo
In una mia Bustina precedente dicevo che il politically correct, nato in America per difendere i diritti delle minoranze oppresse, per opporsi a ogni forma di discriminazione razziale, sta trasformandosi in un nuovo fondamentalismo. E i fondamentalismi, che assumono che della Verità si possa dare solo una e una versione, ritenendo tutti gli altri dei devianti, non sono necessariamente intolleranti (potrebbero consentire ad altri di non essere fondamentalisti) ma certamente rischiano di diventare intolleranti, esiliando dalla Comunità coloro che non si attengono alla «retta» interpretazione dei testi.
Un mio amico, professore in una università americana, mi ha raccontato questo episodio. Lui fuma, non si può fumare negli edifici universitari e perciò, nell' intervallo tra una lezione e l' altra, va fuori a fumare. Ci sono anche altri studenti che fumano e vanno fuori anche loro: si ritrovano e chiacchierano per dieci minuti. Ora il mio amico americano è stato denunciato al suo preside da alcuni studenti non fumatori con questa motivazione: intrattenendosi fuori con gli studenti fumatori egli stabilisce con essi un rapporto privilegiato, a scapito degli studenti non fumatori. Questo rapporto privilegiato viola le regole che noi chiameremmo di par condicio, quindi il suo comportamento è censurabile.
Come si vede, in questo caso non si tratta del rispetto di una minoranza precedentemente emarginata o potenzialmente emarginabile, ma se mai delle difese di una maggioranza, ovvero della preoccupazione di non creare una minoranza in qualche modo avvantaggiata. È intuitivo come una simile preoccupazione di rispetto per ciascuno possa produrre una situazione di pericolosa intolleranza verso chiunque. Per esempio potrebbe portare alla legge che io non debbo sposare la persona che amo ma quella che mi viene assegnata, per rispettare i diritti di qualsiasi minoranza etnica (nel senso che, se dieci cinesi si sono già sposate, io debbo sposare una indiana, o una finlandese, ma non una cinese, per garantire pari opportunità a ciascuna minoranza etnica). L' invenzione dell' università (e tra l' altro nel Medio Evo e proprio a Bologna) è stata un grande evento perché ha stabilito che doveva esistere una istituzione destinata all' insegnamento, non solo indipendente dal potere politico e religioso, ma in cui ciascun insegnante doveva essere ideologicamente indipendente dall' università stessa. Idea rivoluzionaria che ha permesso il progresso della scienza occidentale.
Ma con il politically correct questa libertà viene revocata in dubbio. Un professore di letteratura inglese viene invitato a non fare un corso su Otello di Shakespeare perché la figura del Moro geloso e omicida potrebbe offendere studenti non occidentali, non può parlare de Il Mercante di Venezia per l' ovvia ragione che in quella tragedia Shakespeare non dimostrava di essere immune da un certo antisemitismo popolare (anche se Shylock è un personaggio sublime). Ma addirittura è scoraggiato dal fare un corso su Aristotele se questo implica che con questo trascuri la filosofia e la mitologia di qualche etnia africana (i cui discendenti frequentano l' università).
Che sia giusto e utile insegnare sia Aristotele che i miti Dogon, è fuori discussione. Ma purtroppo il politically correct punisce oggi chi insegna Aristotele e premia chi insegna i miti Dogon. Il che rappresenta una forma di fanatismo e fondamentalismo pari a quella per cui si insegnava che Aristotele incarnava la razionalità umana e i miti Dogon erano solo espressione di una mentalità selvaggia. È giusto che una università, come del resto una scuola media, trovi spazio per l' insegnamento di tutte le prospettive (per cui da tempo sostengo che in una buona scuola bisogna insegnare che cosa dice la Bibbia, che cosa dicono i Vangeli, e il Corano, e gli scritti del Buddha). Ma proibire a qualcuno di parlare della Bibbia (che conosce bene), solo perché questo discorso esclude il Corano, è una pericolosa forma d' intolleranza mascherata da rispetto per opinioni diverse. (La Stampa)
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