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Interrogarsi sul male

Paolo Mieli Incisione di Luigi Sabatelli
Pubblicato il 01-12-2020

In epoca antica e nel medioevo la peste era vista come castigo divino

Perché l' esercito degli Achei che assediava Troia fu colpito da una terribile pestilenza? Il colpevole va cercato sull' Olimpo. Racconta Omero che Agamennone rapì Criseide, figlia di un sacerdote di Apollo. Apollo, per punire questo sgarbo, castigò il re dell' Argolide con un' epidemia che decimò i suoi uomini Finché Agamennone non decise di piegarsi, restituì Criseide e prese al suo posto Briseide amata da Achille. Meglio l' ira di Achille che quella degli dei. È questa una delle prime descrizioni delle «origini divine» di una pandemia. Descrizione dalla quale Frank M. Snowden (professore emerito di Storia della medicina assai noto per aver scritto una storia della malaria e un' altra del colera a Napoli dal 1884 al 1911) prende le mosse per il fondamentale volume Storia delle epidemie , sintesi di un ciclo di lezioni all' Università di Yale, pubblicato dalla Libreria Editrice Goriziana (Leg). Il messaggio quasi esplicito del racconto omerico è che «se rinunci al peccato e confidi nel tuo Dio, non dovrai temere la pestilenza che colpisce solo i malvagi». In caso contrario... Anche nell' Edipo re , tragedia di Sofocle, saranno gli dèi a castigare Tebe con una pestilenza così da arrecare grandissima pena alla città rea di aver accettato un sovrano, Edipo, colpevole d' aver ucciso il padre e sposato la madre.

È altresì evidente, sia nel Libro della Genesi sia nel Libro dell' Esodo , scrive Snowden, che «le pestilenze erano punizioni divine inflitte a chi aveva osato sfidare la volontà di Dio». Anche in tutto il resto della Bibbia. William Naphy e Andrew Spicer - nel libro La peste in Europa (il Mulino) - notarono che gli Israeliti fuggiti dall' Egitto e vaganti nel deserto in cerca della Terra Promessa, «furono spesso minacciati o colpiti da castighi inviati da Dio». Dio che mandò le piaghe contro il suo popolo per punirlo di non essersi più accontentato della manna. O quando gli esploratori inviati nella terra promessa tornarono con un rapporto pessimistico (e in quanto tale «privo di fede»). O ancora quando i capi «ordirono un complotto contro Mosè e Aronne». L' ira divina «rivolta contro il "popolo eletto" colpevole di aver profanato i santuari con immagini e pratiche immonde avrebbe causato lo sterminio di un terzo dell' umanità proprio con il flagello della peste o della carestia».

La peste, nell' antichità, era sempre considerata come una manifestazione della collera di Dio nei confronti della sua gente. Le piaghe colpivano «non individui colpevoli di specifici peccati, bensì un popolo intero per essersi abbandonato al peccato e, soprattutto per un comportamento religioso non corretto». Idolatria, falsi culti e mancanza di fede erano «all' origine del peccato». E i non peccatori travolti dal morbo assieme a tutti gli altri? Avrebbero potuto sfuggire o scongiurare il flagello «pentendosi». In che senso? Il pentimento consisteva nel «darsi da fare per modificare» il comportamento e le credenze dei popoli ai quali appartenevano. Ma si conoscono pochi casi in cui questa via di fuga abbia realmente funzionato.

Della peste di Atene che nel 429 a.C. uccise anche Pericle fu data ai tempi un spiegazione che mescolava l' origine divina alla superstizione. Tucidide però, in La guerra del Peloponneso (Bur), descrisse l' epidemia come «un evento in cui l' occulto, il soprannaturale, il divino non avevano avuto alcun ruolo». Tucidide fu tra i primi a capire che il morbo veniva dall' Etiopia e si era diffuso poi per vie «naturali». Non concesse nulla, lo storico antico, alla tesi che l' epidemia fosse riconducibile all' ira degli dèi. Una concessione fece alle superstizioni dell' epoca, un riferimento alla voce secondo la quale tutto era iniziato con «l' avvelenamento dei pozzi messo in atto dagli Spartani, nemici di Atene».

Ancora più rivoluzionaria fu la descrizione che del morbo fece Ippocrate in La malattia sacra (Marsilio). Nella peste, scrisse Ippocrate (vissuto a ridosso dell' epidemia ateniese), non c' è niente di più divino o sacro di quel che c' è in altre malattie. Essa ha invece «struttura naturale e cause razionali». Perché allora era stata individuata un' origine «divina» di quel flagello? Per «inesperienza», secondo Ippocrate. O per la sorpresa di trovarsi al cospetto di «una malattia che non assomigliava a tutte le altre».

Aperta questa via, entrarono in scena «maghi, purificatori, ciarlatani e impostori». Ognuno di loro aveva la pretesa d' essere «più devoto» e di vedere più lontano di tutti gli altri. Costoro «presero il divino a riparo della propria sprovvedutezza» e soprattutto come giustificazione della loro incapacità a trovare rimedi. E, per fare in modo che la loro ignoranza non fosse «manifesta», asserirono che questo male era sacro. Poi, se il malato guariva, sostenevano che era merito delle loro cure. Se invece moriva, attribuivano la responsabilità agli dèi. Resta il mistero su cui ha attirato l' attenzione Mark Honigsbaum in un libro peraltro dedicato esclusivamente al Novecento - Pandemie. Dalla spagnola al Covid-19 un secolo di terrore e di ignoranza (Ponte alle Grazie) - di come sia stato possibile che un virus capace di uccidere un terzo degli Ateniesi, «non abbia toccato gli Spartani né si sia esteso molto oltre i confini dell' Attica». Ma questa è un' altra storia.

Perché è importante quel che scrisse Ippocrate? Come ha ben spiegato l' epidemiologo Charles-Edward Winslow «se la malattia viene postulata come un evento causato da dèi o demoni, il progresso scientifico è impossibile». Se invece «viene attribuita ad un ipotetico umore, la teoria può essere verificata e migliorata». È per questa ragione che la causalità naturale individuata da Ippocrate fu «il primo fondamentale passo» che segnò «in modo incomparabile la conquista più epocale nella storia intellettuale del genere umano». Sulla scia di Ippocrate si mosse il greco Galeno di Pergamo, vissuto tra il II e l' inizio del III secolo dell' era cristiana. Scrive Snowden che Galeno ebbe «l' importante funzione di romanizzare Ippocrate, nel senso di far conoscere la sua opera a un pubblico di lingua latina in tutto l' Impero romano».

Per la peste di Giustiniano (541-542), la prima vera e propria pandemia della storia, secondo Procopio - che descrisse l' iniziale diffondersi della malattia in Le guerre. Persiana, vandalica, gotica (Einaudi) - erano stati i misfatti dell' imperatore bizantino ad attirare la collera divina. Collera che si sarebbe appunto manifestata con la diffusione della malattia. Oggi, spiega Snowden, siamo in grado di ricostruire che il male attaccò l' uomo in un centro nel delta del Nilo «per poi propagarsi in diciotto ondate successive per un periodo di duecento anni fino al 755 quando scomparve improvvisamente. E «misteriosamente come era arrivata». Scrive Procopio che «poco mancò che andasse distrutto l' intero genere umano».

Per la cristianità occidentale, hanno ricordato Naphy e Spicer, il momento più importante fu la pestilenza che colpì Roma nel 590, che fu contrassegnata in extremis «dalla miracolosa salvezza della città papale operata dall' arcangelo Michele». Gregorio I, già legato di papa Pelagio II presso l' imperatore d' Oriente a Costantinopoli, divenne pontefice proprio in quel 590 e si mise a capo di una grande processione che attraversò tutta la città e coincise con la cessazione dell' epidemia. Secondo le credenze dei suoi fedeli, «fece cessare» la diffusione del morbo con l' aiuto dell' arcangelo Michele. La miracolosa apparizione dell' arcangelo che «rinfoderava la spada dopo aver "ucciso" l' epidemia» è ancor oggi ricordata dalla statua eretta alla sommità della Mole Adriana per celebrare l' evento. L' edificio prese il nome di Castel Sant' Angelo e Gregorio l'appellativo di «Magno». Fu poi fatto santo.

Per gli islamici, in quella stessa epoca, la morte per peste garantiva l' immediato ingresso in paradiso. Non c' era differenza in tal senso, hanno scritto Naphy e Spicer, «tra il morire di peste e il morire in battaglia durante una guerra santa o una crociata». Ma «se la peste procurava una grande gioia ed era una sorta di benedizione impartita da Dio ai credenti, era anche, per gli infedeli, un castigo e un giudizio di condanna». Il mondo islamico «rigettava in toto e categoricamente l' idea che il morbo si propagasse per contagio, giacché Dio aveva specificamente e individualmente selezionato i suoi bersagli». Tappa fondamentale di questo percorso è, a partire dalla metà del Trecento, la «morte nera». La peste bubbonica, secondo Snowden è «uno dei migliori esempi di malattia che interessa tutti gli aspetti della società». I suoi «cicli ricorrenti - con un' epidemia ad ogni generazione - furono un importante freno alla crescita della popolazione tra il XIV e il XVIII secolo». Ebbero sì effetti devastanti sulla vita economica e lo sviluppo, ma influenzarono ancor più la religione e la cultura popolare dando origine a nuove forme di devozione, a culti di santi e rappresentazioni della passione di Cristo. Si può sostenere, secondo Snowden, che «la peste bubbonica influì profondamente sul rapporto delle persone con la loro condizione mortale e quindi con Dio». Le due epidemie di peste, quella giustinianea e quella del Trecento, fecero in qualche modo da spartiacque tra diverse stagioni della storia dell' umanità: la prima tra il mondo antico e quello medievale, la seconda tra il medievale e il moderno.

Nell' Europa medievale, scrive Snowden, la peste diede luogo a una profusione di sermoni religiosi il cui tema centrale era la «teodicea», ossia «la difesa della benevolenza di Dio onnipotente davanti al male e al dolore». Era relativamente facile, prosegue Snowden, accettare il fatto che Dio fosse in collera e volesse punire coloro che si erano allontanati da lui o avevano disobbedito ai suoi comandamenti. Ma come era possibile spiegare la terribile sofferenza inflitta dalle epidemie a degli «innocenti», ad esempio la morte di tanti bambini? È vero che la peste provocava quella che Snowden definisce un'«impennata di religiosità», ma è vero altresì che produceva nello stesso tempo spinte in senso opposto. Cioè induceva alcuni alla spaventosa conclusione che poteva «non esistere alcun Dio». Un essere «amorevole e onnipotente» non avrebbe preso in modo indiscriminato le vite di metà della popolazione di una grande città, uccidendo tante persone «incolpevoli». Questo genere di riflessione, precisa Snowden, all' epoca non portava all' ateismo ma a «una muta disperazione per lo più inespressa», uno «shock psicologico che in retrospettiva e anacronisticamente potremmo chiamare stress post traumatico».

Considerazioni che si ripresentarono infinite volte, anche quando la scienza iniziò a far luce sulle vere origini del morbo (tema a cui è esaurientemente dedicato il resto del libro di Snowden). Ma che si riproposero in infinite occasioni e nei libri più famosi di autori come Giovanni Boccaccio, Daniel Defoe, Alessandro Manzoni, Albert Camus (oltreché di un' infinità di altri autori). E che rimbalzarono ancora nella seconda metà del Novecento, in epoca di guerra fredda, di fronte alla prospettiva di un possibile conflitto nucleare. Ebbero eco, ad esempio in un celebre film del regista svedese Ingmar Bergman, Il settimo sigillo (1957). Così quello che inizialmente era stato, per secoli, un modo di inoltrarsi ad indagare su fenomeni altrimenti inspiegabili lasciò il posto ad una indispensabile riflessione filosofica su cause e ragioni del male. (Corriere della Sera)

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