Il capitalismo distrugge il pianeta. Serve un nuovo pensiero cattolico
Giovani da mezzo mondo e premi Nobel per lanciare un’economia diversa
Domani sera alle 20,45, nella chiesa di Loreto (via Kolbe, 3, Bergamo) serata conclusiva dedicata (esclusivamente) agli oltre cento Circoli di R-Esistenza di Molte fedi. I partecipanti incontreranno l’economista Luigino Bruni, autore del libro-guida di quest’anno, «Economia e profezia », sul quale hanno lavorato per mesi a piccoli gruppi, entrando a fondo negli argomenti. Editorialista di «Avvenire», Bruni insegna Economia politica alla Lumsa. Insieme a Stefano Zamagni ha fondato la Scuola di Economia Civile.
Professore, qui l’unica «profezia» all’orizzonte del nostro tempo sembra essere la distruzione del pianeta.
«È ormai evidente che il capitalismo e la teoria economica che lo sostiene, su alcuni grandi temi non funzionano. Dopo il crollo del Muro di Berlino tanti si sono lasciati prendere da un certo ottimismo sulla capacità del capitalismo di risolvere i nostri problemi: negli ultimissimi anni, invece, questo ottimismo si è tramutato in certezza che non funzioni affatto. Se non cambiamo in fretta paradigma, in effetti distruggeremo il pianeta, i beni comuni e i beni relazionali, cioè i rapporti umani non strumentali».
Dunque l’allarme ambientale non è solo una questione ecologica, lei lo legge come il segnale di una crisi più vasta della società?
«Nel problema del riscaldamento globale è evidente che si sono manifestate delle lacune più nascoste: l’insostenibilità ambientale è un linguaggio che parla a noi di altre insostenibilità. Quando un sistema economico non sa conservare il luogo che lo nutre e lo fa vivere, è già in grave crisi, evidentemente. Quella ambientale non è una crisi come tutte le altre che abbiamo vissuto, come quella energetica, o il terrorismo o il coronavirus. È qualcosa di molto più radicale, che ci costringe a ripensare la teoria economica dalle sue fondamenta».
Cosa c’è di storto nel capitalismo? Ha sbagliato i calcoli sulle nostre reali possibilità? Non sa valutare i danni di certe politiche industriali?
«Un elemento è sicuramente che non abbiamo saputo prevedere gli effetti di certi processi che hanno dominato negli ultimi decenni: non siamo stati capaci, per esempio, di fare delle previsioni corrette sul futuro con certi tassi di emissione di anidride carbonica. Abbiamo sempre sottostimato chi ne parlava con preoccupazione - perché evidentemente ci sono interessi enormi in campo. E la gente tende a sottostimare gli effetti distanti da sé: diamo molto peso ai fenomeni che ci toccano ora, molto poco a quelli che investiranno tutti fra un certo numero di anni. Ma c’è anche un problema teorico più sostanziale: l’economia accademica non ha considerato in modo serio i beni comuni e ha dato troppo spazio ai beni privati: i telefonini, i pantaloni, i cosmetici, i cibi sono stati studiati, analizzati, sono stati al centro dei trattati di economia. I premi Nobel sono stati assegnati agli esperti di finanza, mentre non abbiamo dato importanza all’economia del pianeta, al problema del verde o dell’inquinamento degli oceani. Gli esperti hanno dedicato l’1% della loro attenzione a queste telematiche e il 99% alle altre. Quindi, come direbbe il Papa, “il mondo soffre per una mancanza di pensiero”. I migliori studenti delle università si occupano di finanza e pochi studiano il valore dell’aria o dell’acqua, la sanità, la sicurezza alimentare e sociale».
Una teoria economica incorpora sempre una certa visione dell’uomo. E in fondo anche una certa teologia, un’idea dei valori assoluti e dei fini della vita. Per superare il capitalismo, dovremmo superare l’antropologia che ha dominato questi 150 anni?
«Siamo stati governati da un capitalismo di stampo protestante, che si è costruito attorno all’idea che la ricchezza sia una sorta di benedizione di Dio, e che il benessere corrisponda a un accumulo di cose. Questa visione, incontrastata, ha prodotto la crisi ambientale e anche la crisi relazionale. Dobbiamo reimparare un’etica che vede il benessere non solo nella produzione crescente di beni ma anche nel saper custodire quelli che abbiamo già. Il mondo cattolico avrebbe un’altra visione dell’economia rispetto al Nord Europa. Ha sempre considerato la ricchezza in modo problematico, pensiamo a Dante, a dove mette – nel Quarto Cerchio dell’Inferno - gli avari... La Terra promessa non può essere la terra delle merci moltiplicate all’infinito, questa idea oggi sta mostrando il suo contenuto velenoso, che ci porta all’autodistruzione. L’umanesimo cattolico, comunitario, latino è stato a lungo perdente: è stato visto e dipinto come il terreno delle mafie, del familismo, della corruzione, di tutti i mali attribuiti al Sud dell’Europa e del mondo, mentre l’idea della centralità assoluta dell’individuo, della libertà, della Terra senza confini ha vinto. Forse il XXI secolo vedrà una nuova stagione: il mondo oggi ha bisogno più di rapporti di comunità che non di merci».
Già: la teorie economica parla di «beni» ma alla fine li riduce a «prodotti»; parla di «benessere» e intende sempre un «avere»...
«Sì, l’uomo, e la donna, sono un insieme di esigenze che comprendono sicuramente anche un certo comfort, la casa, la macchina, il mangiare, il vestire, però in un mondo della post-scarsità come quello in cui viviamo in Occidente i beni più preziosi sono legati ai rapporti, alla conoscenza, all’accesso più che al possesso: se continuiamo a ragionare in termini di “merci”, di “cose”, continueremo a inquinare a distruggere. Quello di Internet è un mondo molto legato all’idea di beni liberi, almeno come intuizione: un paradigma economico ancora legato alle merci, alla “roba”, come direbbe Giovanni Verga, all’accumulare quantità di cose, è vecchio. Questo, però, è ancora il messaggio che passa attraverso la pubblicità in televisione. Puntare solo sull’incremento costante dei beni materiali non funziona più, perché sono limitate le risorse della Terra».
La cultura cattolica negli ultimi decenni è rimasta molto indietro. Oggi, in economia, riprende coscienza delle sue possibilità?
«Da 30/40 anni si è fermata, sì, e ha subito. Prima aveva fatto una certa resistenza all’avanzare dell’economia legata all’accumulo del profitto, con le banche rurali, le Bcc, le cooperative, tutto quel mondo di economia sociale in cui i cattolici già dalla fine dell’800 sono stati protagonisti, assieme al mondo comunitario della sinistra: dagli anni ’80 invece il mondo cattolico ha smesso di sentirsi orgoglioso del suo pensiero e si è messo a imitare le grandi banche e le multinazionali del Nord. Se noi oggi andiamo a una convention e guardiamo quello che accade in buona parte - non in tutta - dell’impresa sociale italiana, troviamo lo stesso linguaggio, le stesse parole, gli stessi paradigmi del mondo anglosassone: in economia si parla ormai solo inglese. Il mondo latino ha smesso di creare pensiero. È già tardi, siamo stati invasi da un bel pezzo da questi “nuovi barbari”, e neppure ce ne siamo accorti. Siamo un po’ come Montezuma che pensava che Cortés fosse un dio, e con il suo popolo finì sterminato. Abbiamo accolto questo tipo di capitalismo con l’entusiasmo con cui gli aztechi ricevettero nel Nuovo mondo gli Spagnoli. Ora si sta ricominciando a pensare, ma è un po’ tardi».
Questo Papa - cosa abbastanza insolita - interviene su temi di economia. Ora le ha chiesto di coordinare il Comitato scientifico di «The economy of Francesco», un evento che si terrà dal 26 al 28 marzo ad Assisi: economisti e imprenditori, rigorosamente sotto i 35 anni, si daranno appuntamento per disegnare insieme «una nuova economia».
«La Chiesa negli ultimi decenni ha dato molta importanza alle scuole di formazione politica, o di bioetica ma non a quelle di economia: non erano considerate delle priorità nella formazione dei laici. Invece questo Papa ha capito che senza una stagione di pensiero economico nuovo non si va da nessuna parte, perché oggi l’economia è la grammatica del linguaggio sociale. È un grande fattore di innovazione aver compreso che l’economia è una priorità se si vuole cambiare in senso umanistico e cristiano il mondo. “Il Sole 24 Ore” l’ha chiamata la “Davos francescana”, ma mentre il World Economic Forum svizzero convoca gli anziani, il Papa invita, appunto, i giovani».
Chi ci sarà?
«I premi Nobel Muhammad Yunus e Amarthya Sen, Bruno Frey, Tony Meloto, Carlo Petrini, Jeffrey Sachs, Vandana Shiva, Stefano Zamagni, ma saranno solo ospiti, che vengono a dare una mano a giovani da oltre 45 Paesi, che saranno i veri protagonisti».
Quindi i ragazzi che, in maniera anche un po’ naif, si preoccupano delle sorti della Terra hanno toccato davvero un nervo scoperto.
«A me ricordano molto la favola del Re nudo, in cui il protagonista è un bambino. Che ci fosse un problema enorme nell’economia attuale eravamo troppo distratti, troppo incantati dalle ideologie del “tutto va bene” per accorgercene: troppo incantati dai cantastorie, e ce ne sono tanti anche tra gli economisti».
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