Le visite dei pontefici
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Il giudice anti-mafia e la moglie, magistrata mai subalterna, furono uccisi 28 anni fa nella strage di Capaci
Roberto Saviano - La Repubblica
C'è una foto che ho conosciuto di recente, ritrae Giovanni Falcone e Francesca Morvillo al mare. I visi abbronzati, sembrano sereni; hanno gli occhi chiusi, le teste poggiate l’una all’altra: sembra un momento di pace. Osservo la foto e penso: come hanno fatto a sottrarsi, anche solo per un attimo, all’angoscia di una vita di pressioni, minacce, delegittimazione e scorta? Come hanno fatto a chiudere gli occhi e ad abbandonarsi al sole? Francesca Morvillo è l’unica magistrato donna a essere stata assassinata nella storia d’Italia. Difficile misurare il peso della sua influenza nelle scelte non solo di Falcone, ma di tutto il pool antimafia di Palermo che in quegli anni frequentava. Francesca era giudice del Tribunale di Agrigento e poi sostituto procuratore a Palermo presso il Tribunale per i minorenni. Sapeva cosa stava accadendo ecco perché – in questo caso e sempre – il racconto della donna “costola” dell’uomo, ancella nella solitudine, sostegno nella difficolta non mi ha mai convinto.
La loro relazione non si alimentava di subalternità; il carburante era un progetto professionale, anche metafisico-romantico, quello di poter trasformare il Paese con lo strumento del Diritto. Giovanni Falcone e Francesca Morvillo erano uniti dalla malta di questo smisurato sogno. Puoi condividere la vita con un uomo ossessionato dalle letture di atti giudiziari se non li ami anche tu? Puoi essere, a tua volta, amata da un uomo quando passi gran parte del tempo a studiare, analizzare, sottolineare con il lapis e a pranzo e cena parli di codici e procedure e, persino quando scherzi, citi vicende processuali? L’adagio degli opposti che si attraggono è suggestiva, ma in realtà gli amori calamita finiscono per funzionale male, per tollerarsi, al più comprendersi.
Qui invece si era dalla stessa parte: cosa meravigliosa e soprattutto rara. E io continuo a domandarmi: come hanno fatto a resistere? Mi è sempre interessato l’intimo delle persone che ho deciso di scegliere come guida; l’intimo, non il privato: esiste una grande differenza. L’intimo è lo spazio dove ci si muove al riparo dal pubblico, è li che maturano le scelte cruciali, che si ritrova il dolore più profondo, l’allegria incontrollata. Osservare l’intimo è seguire il percorso delle scelte, delle ragioni; l’intimo è il luogo dove tutto è maturato prima di accadere. L’intimo, quello spazio in cui come scrive Pannella «si vuol essere onesti ed essere davvero capiti». E l’intimo si oppone al privato che invece è lo spiare dalla serratura, scovare il dettaglio scabroso, ficcare il naso. Al privato sono interessati i dossieratori, i ricattatori, all’intimo chi vuole conoscere i sentimenti primi.
La vita quotidiana di Francesca e Giovanni era fatta di assedi, di continui attacchi, di tentativi di boicottare la loro serenità. Interviste contro, colleghi che attaccavano per invidia fingendo di dare sostanza critica alle loro accuse: ma come facevano a tenere i nervi saldi? A non urlarsi contro solo per sfogo? A non dubitare l’uno dell’altro? Da sempre mi chiedo come sia possibile amare in condizioni disumane, eppure succede, ci si ama. Nel 1978 Falcone approda a Palermo, il suo primo matrimonio è a pezzi e chissà quanta responsabilità in questo epilogo hanno contato le tensioni che ha vissuto a Trapani. A Palermo viene chiamato da Rocco Chinnici, arrivato per prendere l’eredità del giudice Cesare Terranova ammazzato da Cosa nostra, passa all’Ufficio istruzione della sezione penale. Nello stesso anno incontra Francesca Morvillo durante una cena a Salemi. Da qualche parte ricordo di aver letto che Francesca Morvillo si accorge del corteggiamento perché Falcone non smette di volerla far ridere, si prende cura del suo umore, la vede malinconica vuole trasformare la mutria per giornate pesanti in sorriso. Nel 1980 riceve la scorta che non perderà mai più. Ma bastavano a Francesca e Giovanni i pochi attimi di libertà per sentire i loro corpi? A Roma capitava che riuscissero a fare brevi sortite senza scorta, così come all’estero – a New York, in Grecia – non avevano alcuna protezione. E in quei momenti come agivano? Riuscivano a sentirsi in qualche modo leggeri, quasi in vacanza? O avevano disagio perché quello ormai non andava più via? Ma come, vi chiederete, proprio in Usa dove c’era Cosa nostra o in Grecia o a Roma di notte (a volte andavano al cinema non protetti, lo sapevano anche i mafiosi mandati nella capitale ad osservare) erano senza scorta? È così, perché le mafie quando uccidono lo fanno in maniera simbolica e a casa loro. Un omicidio a migliaia di chilometri di distanza perde valore. Non scuote il territorio, non lo terrorizza con il tritolo, non ci sono testimoni che possono riferire. Ma come si può, mi domando, condurre una vita normale quando si è osservati e giudicati da tutti? E non fate l’errore di credere che fossero osservati con devozione, con ammirazione, tutt’altro. Erano addirittura stati invitati ad allontanarsi dalla città perché le scorte disturbavano la quiete pubblica.
Sull’amore tra Francesca Morvillo e Giovanni Falcone ho sempre e solo congetturato, se potessi descrivere come, nella mia fantasia, tocco le loro figure quando le immagino insieme, dovrei citare l’ovatta. Ho persino fastidio di chi li chiama Francesca e Giovanni, diritto che acquisisce solo chi li ha conosciuti in vita, e in vita ne ha condiviso il bene. Si sposano otto anni dopo il loro primo incontro. Ottengono i divorzi, ma per anni su di loro grava il pettegolezzo, la delegittimazione: «Tagliati la barba, così la finiscono con la storia del giudice comunista» e «Sposa Francesca, così la finiscono con la vicenda del giudice con le amanti».
E poi c’è la realtà di sangue. Nel 1982 ammazzano Calogero Zucchetto, nel 1983 ammazzano Chinnici con una 127 imbottita di esplosivo e nel 1985 ammazzano Beppe Montana e Ninni Cassarà. Ma come facevano Francesca e Giovanni, quando tornavano a casa, a reggere tutto questo? Due mesi prima che Falcone fosse ucciso – lo racconta Ilda Boccassini – in un’assemblea dell’Anm un magistrato prese la parola e disse: «Falcone è un nemico politico». Ecco, mi chiedo, si può davvero sopravvivere a un massacro così? Immagino questo: diventi irascibile, teso, non riesci a collaborare con chi ti sta accanto. In casa non riesci a far nulla che non sia pensare a ciò che ti stanno facendo, a quale strategia adottare, capire se esiste una strategia o se quello che ti stanno facendo è troppo più grande di te e finirai per soccombere. “L’amor che vince tutto” non esiste. L’amore non è un principio, è il quotidiano, ma se non riesci a proteggerlo dalla barbarie rovina come qualsiasi altra cosa. Inutile mentirsi, a una vita assurda corrisponde una relazione assurda: solitudine, tensione, incomprensione, sospetto, forse persino disordine, malinconia, disagio. L’amore muore in queste condizioni, ne sopravvive solo il suo aspetto metafisico, la parte meno necessaria.
Come hanno fatto Francesca e Giovanni a non litigare di continuo? A gestire le notti distanti, il pericolo, il gossip silenzioso che li inseguiva? Quando hanno accusato Falcone di essersi procurato da sé l’attentato dell’Addaura, come hanno reagito? Si sono stretti in un abbraccio o al contrario non si sono sfiorati, si sono chiusi nel silenzio? Si sono sostenuti discutendo per notti insonni o non si sono detti niente come chi guarda insieme il fuoco ardere e non c’è bisogno di aggiungere nulla alle fiamme? Come dannazione si sopravvive quando tuoi colleghi e (sedicenti) amici sostengono che ti sei messo una bomba per fare carriera?
Dopo l’Addaura Falcone voleva divorziare da Francesca per salvarla, per evitare che fosse un obiettivo della mafia, ma non solo capisce che ormai il fango è un oceano contro di lui, vuole salvarla dal livore delle persone “perbene”. Non si lasciano, alla fine muoiono insieme. Gli ultimi minuti sono la sintesi della tensione e dell’intimità. Falcone sta guidando l’auto blindata (da allora verrà vietato agli scortati di poter guidare l’auto, ma all’epoca era d’uso farlo), il suo autista Giuseppe Costanza è sul sedile posteriore. Francesca Morvillo soffre il mal d’auto, così sale davanti, al posto del passeggero.
Marito e moglie sono uno accanto all’altra, come una coppia normale che sta andando a casa. L’automobile corre lungo la strada che da Punta Raisi porta a Palermo, Costanza chiede a Falcone di poter avere le chiavi di casa. È più un promemoria che una richiesta, ma Falcone, sovrappensiero, sfila le chiavi dal cruscotto per dargliele, gesto pericolosissimo perché l’auto spegnendosi frena di colpo mentre è in piena velocità, Falcone fa in tempo a scusarsi, saranno le ultime parole, Brusca vedendo l’auto rallentare di colpo sospetta che abbiano saputo qualcosa e attiva prima del previsto l’ordigno. Quel gesto fatto per distrazione, e forse perché la mente era affollata da preoccupazioni, salvò la vita a Costanza che era sul sedile posteriore perché l’auto rallentò e l’esplosione non la prese in pieno. Si schiantarono contro un muro di cemento e catrame, il tritolo aveva reso l’autostrada verticale. «Dov’è Giovanni…» sono le ultime parole di Francesca, le raccoglierà un poliziotto durante il trasporto in ospedale.
Ma le ultime parole del loro amore giunte a noi furono altre. Le ritrovò scritte su un cartoncino bianco, anni dopo, Giovanni Paparcuri, collaboratore di Falcone che sopravvisse all’attentato a Rocco Chinnici, in un libro che Francesca Morvillo aveva donato a Giovanni Falcone. Un pensiero pieno di delicata speranza che tradisce il timore che tutto possa finire in un istante, ma si affida alla certezza che da qualche parte, nella parte che pulsando dà origine a tutto, quello che hanno vissuto insieme resterà: «Giovanni, amore mio, sei la cosa più bella della mia vita. Sarai sempre dentro di me così come io spero di rimanere viva nel tuo cuore, Francesca».
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