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Forzare le sbarre che imprigionano l'Io

Pietro del Soldà - Il sole 24ore Pixabay
Pubblicato il 26-07-2020

Scopriamo con Montaigne i passi per intraprendere il cammino della costruzione di sé

Un tempo di crisi può offrire davvero l’opportunità di prendersi cura di sé, di migliorare o addirittura di cambiare vita, come da più parti s’è sentito dire durante le fasi più buie della pandemia («niente sarà più come prima» e «ne usciremo migliori »)? Crisi è rottura e, in effetti, anche occasione per guardare meglio i nessi profondi e per giudicare (dal greco krino) la trama nascosta di relazioni e abitudini su cui si fonda la nostra vita, una trama che “prima” davamo per scontata. È insomma un’occasione dolorosa per provare a conoscersi più a fondo e a corrispondere all’enigmatico invito di Nietzsche «divieni ciò che sei». O, meglio ancora, al motto «costruisci te stesso» che l’editore Fazi ha scelto come titolo per il quinto volume di un’interessante e libera traduzione e riproposizione dei Saggi di Montaigne, curata da Federico Ferraguto e basata su un ordine tematico che prescinde del tutto dalla successione originaria che scandisce i tre libri degli Essais.

Il sé su cui mi posso chinare per prendermene cura non è infatti un ritratto nascosto in qualche vecchia soffitta che ora, nel mezzo della crisi, riemergerebbe intatto e ben definito. Al contrario, lascia intendere Montaigne, il sé è un processo di costruzione continua fatta di prassi, abitudini e immaginazione, non dissimile dalle grottesche di un certo pittore che egli vide all’opera sulle pareti di casa sua. Montaigne negli Essais parla ovviamente di sé, degli autori antichi che predilige e talvolta della sua Francia in procinto d’essere travolta dalle guerre di religione, certo, ma la lieve forzatura contenuta nel titolo di questo libro è giustificata: sembra rivolgersi anche a noi. Viene spontaneo applicare agli scritti del grande umanista di Bordeaux quel che egli stesso dice a proposito delle Storie di Tacito («ho appena finito di leggerlo d’un fiato. È una cosa che non mi accade spesso. Non dedicavo a un libro un’ora di seguito da vent’anni») nel saggio Dell’arte di conversare con cui Ferraguto sceglie di concludere il volume: il capolavoro dello storico romano, scrive Montaigne forse pensando alla sua stessa opera in mano ai posteri, è infatti «un vivaio di riflessioni morali e politiche», «particolarmente utile a uno Stato confuso e malato come il nostro attuale. Viene spesso da dire che parla di noi e ci pungola».

Il primo e decisivo passo per intraprendere il cammino della costruzione di sé è la liberazione dal giogo della consuetudine: il suo potere è immenso, non c’è niente che non sia in grado di farci fare, «mi hanno detto che Pindaro la chiama la regina e imperatrice del mondo. Penso abbia ragione». Passando in rassegna con curiosità equanime da etnografo i più diversi costumi degli umani nel mondo conosciuto, e attingendo anche alla propria esperienza politica (fu consigliere e poi sindaco di Bordeaux) per capire come indurre a certi comportamenti una comunità e quanto possa essere sbagliato obbligare un popolo a seguire delle leggi che non ha mai compreso, Montaigne approda alla conclusione che la consuetudine ci anestetizza, ci offusca lo sguardo e l’intelligenza, nasconde la nostra natura, «ci afferra e ci domina così profondamente che a malapena riusciamo a riprenderci dalla sua stretta e a ritornare in noi stessi». «Molte delle cose che ammettiamo con sicurezza e senza il minimo dubbio sono sostenute solo dalla barba bianca e dall'uso che le accompagna. Una volta strappata la maschera, però, le cose vengono ricondotte alla verità e alla ragione».

Ma come strapparla, la maschera? Come sarà possibile liberarsi dal dominio della consuetudine, opponendole altri comportamenti e abitudini illuminate invece dalla ragione e da quel che davvero siamo? Tra gli scritti riproposti da Ferraguto, le due indicazioni più forti vengono da due saggi celebri del Libro I, e si raccolgono in due parole potenti e in contrasto tra loro, e tuttavia ugualmente imprescindibili per uscire dalla finzione e avvicinare se stessi. La prima è solitudine: esperienza necessaria per metter mano alle proprie inclinazioni sbagliate, per far tacere l’autorità malsana che sulla nostra coscienza esercitano l’ambizione, la cupidigia, l’indecisione, la paura e gli altri oscuri affanni. Non basta cambiar luogo, viaggiare, rifugiarsi nelle grotte, nei digiuni o nelle scuole di filosofia. «Qualcuno disse a Socrate – racconta Montaigne – che un tale aveva fatto un viaggio, ma non era cambiato per niente. “E ci credo”, rispose lui, “si è fatto accompagnare da se stesso”». È invece necessario isolarsi anche da se stessi, pur continuando a vivere in mezzo alle città e alle corti dei re, riservandosi un retrobottega proprio e autonomo «nel quale affermare la nostra vera libertà». Qui, in effetti, le parole del francese non sembrano contenere nulla di utile per una società in affanno come la nostra, segnata da un forte individualismo, da disuguaglianze invalicabili e ora anche da un distanziamento fisico che rischia di ridurre ancor di più la voglia di solidarietà e condivisione. «È il momento di staccarsi dalla società, visto che non possiamo darle nulla», dice addirittura più avanti, e poi «Le forze ci mancano, ritiriamole e teniamole per noi».

Dunque, si salvi chi può? Ognuno per sé, a costruire se stesso in solitudine, e semmai Dio per tutti? Così parrebbe, ma la grottesca mirabile e infinita che il pittore Montaigne traccia nei Saggi non cessa di stupire con le sue curvature improvvise. Poche pagine prima, infatti, nel celeberrimo Sull’amicizia, egli traccia il più formidabile ritratto dell’essere umano come relazione, nel quale non lascia adito a dubbi: la costruzione di sé è qualcosa che non si compie da soli ma insieme all'amico, grazie a quel fuoco calmo e costante che, più di ogni altra passione umana, consente agli esseri umani di avvicinarsi, di fondersi in un mélange così mirabile che sembra quasi cancellare ogni linea di confine tra gli amici. Ma quella linea c’è, anzi: la condivisione entusiasmante che gli amici veri assaporano è l’unica esperienza che consente a ciascuno di emergere per quel che davvero è, di esprimere fino in fondo la propria differenza nella relazione. L’amicizia, quando è vera e arriva impetuosa nella nostra vita, ci consente di deporre le maschere sociali che conformano e invischiano in una rete di «amicizie comuni» e obblighi formali che ci rendono, esse sì, davvero soli, e ci spoglia delle abitudini ingannevoli imposte dall'alto o da noi accolte per pigrizia e senza pensare.

In entrambi i saggi, Sull’amicizia e Della solitudine, la critica alla società e al «costume» è senz’appello: era questo del resto lo spirito già presente nel Discorso sulla servitù volontaria composto in gioventù dal grande amico di Montaigne, Étienne De la Boétie, e poi alla base del legame sublime che unì i due giovani, «così completo e perfetto che non si legge ne sia esistito uno simile», interrotto solo, dopo quattro anni di intensa frequentazione, dalla morte prematura di Étienne. Ma in queste pagine, così severe con la pulsione degli uomini a sottomettersi e a uniformarsi, vibra con forza la spinta a forzare le sbarre di quella gabbia psicologica, l’Io che regna sovrano nella nostra «società della performance», così narcisista, ipercompetitivo e incapace di mettersi davvero in relazione con gli altri, per azzardarsi poi a immergersi nella mescolanza, nella vertigine del mélange tra gli amici, e avviarsi così verso una nuova e finalmente libera socialità.

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