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Ergastolano di Dio, intervista al francescano padre Vittorio Trani

ORAZIO LA ROCCA Roberto Pacilio
Pubblicato il 22-11-2017

Sono oltre 40 anni che vivo in carcere, come un ergastolano. Ma il fine pena non credo che arriverà presto perchè la mia vita è qui, vicino ai miei fratelli carcerati

“Sono oltre 40 anni che vivo in carcere, come un ergastolano. Ma il fine pena non credo che arriverà presto perchè la mia vita è qui, vicino ai miei fratelli carcerati sull'esempio di Francesco d’Assisi e come ci insegna papa Francesco”. Scherza, ma non troppo, padre Vittorio Trani, cappellano storico del carcere romano di Regina Coeli, quando parla della sua missione pastorale dietro le sbarre di uno dei più grandi e affollati penitenziari del nostro Paese. Scherza quando si autodefinisce con una buona dose di ironia “ergastolano di fatto”, ma è tremendamente serio quando parla del suo impegno accanto ai carcerati, con il Vangelo in mano e sempre pronto ad offrire la parola di Cristo a chi – costretto ad espiare una colpa commessa per svariati motivi – chiede aiuto, speranza, calore e, non di rado, voglia di riscatto.


Settantatrè anni (è nato in provincia di Latina nel 1944), frate francescano conventuale, padre Trani il primo settembre scorso ha tagliato il traguardo dei “primi” 39 anni vissuti come cappellano di Regina Coeli, dove arriva dopo aver svolto una prima esperienza pastorale per circa 3 anni nell'altro grande carcere romano, Rebibbia. Complessivamente, quindi, ben 42 anni al servizio dei detenuti, sia italiani che stranieri, che aiuta ogni giorno “come un fratello, senza guardare a nazionalità, eventuali colori politici, stato sociale, durata della pena da scontare, con una carica umana che affonda le radici nella sua formazione umana e sacerdotale intimamente legata ai valori francescani e a quella parte del Vangelo in cui Cristo ci invita a visitare i carcerati”.



Padre Vittorio Trani c'è un feeling che lega il suo essere cappellano carcerario e francescano?

“Nel DNA di ogni francescano c'è l'esempio e l'insegnamento che ci è stato donato dal Poverello di Assisi, specialmente l'attenzione ai poveri, agli ultimi e agli ammalati. Stare vicino ai carcerati è una scelta pastorale che ogni cappellano di qualsiasi congregazione fa per motivi personali e di formazione spirituale. Per un francescano la scintilla nasce, inevitabilmente, dal ricordo dell'abbraccio di san Francesco al lebbroso di Rivotorto, un gesto illuminante per il suo tempo, quando i malati di lebbra erano gli esclusi della società, gli ultimi tra i reclusi. Una scelta di vita fatta oltre 800 anni fa, ma che è valida ancora oggi”.



Scelta umana valida, quindi, dopo oltre 8 secoli grazie all'esempio di san Francesco. Ma lei come lo spiega?

“Lo spiego col semplice motivo che il carcerato oggi, magari per motivazioni differenti da ieri, vive in uno stato sociale a dir poco disagiato: come allora è tagliato completamente fuori dal contesto cittadino, troppe volte senza speranza, specialmente se è costretto a vivere dietro le sbarre senza il conforto di una famiglia, di una moglie, un marito, un figlio. Più o meno come i reclusi dei secoli passati. E per questo non si esagera nel dire che i carcerati che oggi vivono in qualsiasi penitenziario, in un certo senso, sono i lebbrosi dei nostri tempi”.



Rispetto ad una quarantina d'anni fa l'identikit del carcerato è rimasto sempre lo stesso?

“No, è cambiato molto. Prima, e parlo della mia esperienza iniziata alla metà degli anni '70, nelle carceri si incontravano detenuti politici degli anni di piombo, esponenti di bande criminali organizzate, oltre a quanti scontavano pene legate a crimini di vario genere, criminalità quotidiana, spesse volte non organizzata. Oggi la popolazione carceraria è cambiata. Le bande organizzate sono calate, ma gli stranieri sono la maggioranza, con tutti i problemi che ne conseguono legati alla scarsa conoscenza dell'italiano e agli usi e ai costumi dei loro paesi d'origine. Il mercato della droga poi, che come un flagello ha rotto schemi e strutture continua a mietere vittime specialmente tra i giovani. Ogni detenuto, però, se non è supportato dalla famiglia, al di là della sua provenienza e della pena da scontare, vive ancora peggio per la mancanza di contatti con figli, congiunti, calore umano che solo il nucleo familiare può dare”.



In questi casi la presenza del cappellano diventa indispensabile. Un francescano cosa fa?

“Un francescano offre la sua presenza senza costrizione, con tatto, delicatezza, amicizia, partendo sempre dai valori spirituali ed evangelici che si provano nel vedere in ogni carcerato il volto del nostro Signore Gesù Cristo”.



Anche Madre Teresa di Calcutta, a venti anni dalla morte avvenuta il 5 settembre 1997, vedeva negli ammalati e nei moribondi il volto di Cristo. C'è feeling anche con Madre Teresa?

“Certamente, la Santa di Calcutta come san Francesco ha abbracciato malati scartati dalla società, moribondi, poveri tra i più poveri. Un esempio imprescindibile, come papa Francesco che, oltre alle storiche visite nelle carceri italiane sull'esempio dei suoi predecessori Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo II, Benedetto XVI, è solito telefonare ai detenuti per dare loro conforto e speranza, ricordando che un vero cristiano, per essere tale, non deve mai dimenticare di guardare anche alla popolazione carceraria con gli occhi della Divina Misericordia che ci è stata insegnata e tramandata da Gesù Cristo. È quel che cerco di mettere in pratica nel mio piccolo”.

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