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Cardini: per una società fraterna

Franco Cardini Ansa - MASSIMO PERCOSSI
Pubblicato il 26-04-2020

Il governo del popolo

Nel 2003, quando molti europei e in particolare alcuni politici italiani erano assertori convinti della necessità della guerra in Iraq - quella delle "terribili armi irachene di distruzione di massa", poi rivelatasi una bufala -, andava molto di moda l'espressione "esportare la democrazia": una merce che per la verità non veniva troppo richiesta, ma che ritenevamo opportuno far accettare in un modo o nell'altro.

In fondo, era una nostra specialità occidentale. Esattamente un anno più tardi usciva per i tipi della Mondadori la riedizione della traduzione italiana di un libro che, già pubblicato nel 1999, era sembrato sul momento un saggetto di socioantropologia comparata di non troppo conto, per quanto recasse la prestigiosa firma di Amartya Sen, La democrazia degli altri, nel quale si mostrava come in culture diverse da quella greca del V secolo, in condizioni differenti e con altri parametri, non fossero poche le civiltà che avevano elaborato sistemi di governo fondati sulla condivisione del potere e sulla consensuale selezione delle élites non lontani da quella che siamo soliti designare come "democrazia".

In effetti, le ricerche antropologiche degli ultimi decenni ci hanno mostrato come le varie forme di "governo del popolo", ben espresse dalla formula giuridico-istituzionale latina Quod omnes concernet, ab omnibus adprobari debet, fossero alquanto diffuse in molteplici società che in passato si definivano "primitive" e che oggi si preferisce indicare come "tradizionali".

Il greco Erodoto e il latino Lucrezio non dicevano nulla di differente quando affermavano che nelle passate età esistevano forme di convivenza e di condivisione che si fondavano su basi diverse da quelle della formalizzazione statuale. Fino dalla metà del secolo scorso un antropologo francese purtroppo immaturamente scomparso, Pierre Clastres, aveva studiato, nel suo saggio La société contre l'État. Recherche d'anthropologie politique, del 1974, l'esistenza di società basate sulla condivisione di beni e di servizi, sullo scambio paritario di diritti e di doveri, su decisioni collettivamente assunte senza bisogno che ciò conducesse all'imposizione gerarchica di norme o all'imposizione di un qualche monopolio della violenza.

Alberto M. Cacopardo, palermitano, allievo di Carlo T. Altan, docente di Antropologia culturale nell'Università di Firenze, ha lungamente studiato l'etnìa dei kalash insediati nella regione del Chitral nello Hindu Cush, cioè nel Peristan, tra Pakistan e Afghanistan. Dalle indagini relative alle loro istituzioni emerge con chiarezza una forte, persistente tradizione preislamica. In effetti l'Islam, imponendo il suo codice giuridico strettamente legato alla teologia coranica, si è sovrapposto a una precedente società pastorale fortemente segnata dalla "cultura del dono" e dai concetti di reciprocità e di redistribuzione.

Una società, potremmo definirla "fraterna", nella quale il concetto "paterno" di potere è assente e, al posto dell'autorità-autorevolezza, regna il principio della persuasione. Con i kalash siamo in altri termini di fronte a quel che resta dei kuffar (al singolare kafir, parola passata al persiano dall'arabo e indicante in linea generale i "pagani"), che in qualche modo nei secoli si sono lasciati convertire all'Islam ma che hanno in cambio sempre rifiutato qualunque tipo di organizzazione politica che comportasse una subordinazione.

Dopo aver tenuto molti secoli a distanza i poteri monarchici dell'area indocentrasiatica, tutti progressivamente guadagnati all'Islam fra Tre e Quattrocento, i kalash hanno rigorosamente contrattato le loro libertà tribali e comunitarie contro poteri sempre più occidentalizzanti prima di entrare in rapporto in un modo o nell'altro, con l'Occidente che ha preteso d'insegnar loro la "democrazia" sviluppatasi, attraverso una dinamica peraltro complessa e non certo né lineare né sempre coerente, da quelle riforme di Clistene che sarebbero state accettate dai romani e divenute quindi, attraverso una lunga elaborazione che data forse dai secoli XII-XIII ma che con maggior rigore è sorta alla fine del Seicento, il nucleo della nostra autocoscienza democratica.

Il fatto è che con il colonialismo postcinquecentesco e, nell'area tra India ed Asia centrale, sette - e ancor più ottocentesco, i figli della tradizione ellenica si sono trovati dinanzi genti nelle quali l'arresto delle istituzioni di libertà e di autogoverno verificatosi in Persia allorché morto Cambise gli succedette Dario non si era verificato. Secondo il racconto di Erodoto, il persiano Otanes all'atto della scomparsa di Cambise aveva proposto d'instaurare - anzi, in realtà di restaurare - il "governo di tutti", il "vecchio sistema": qualcosa che alle nostre orecchie, piaccia o no, richiama con insistenza le congetture di Rousseau e di Engels. Certo, è stato notato che il "governo di tutti" auspicato (e richiamato) da Otanes, buono per le piccole comunità, non avrebbe potuto funzionare con società più grandi e articolate.

Ma com' è allora - e Amartya Sen ce l'ha ricordato - che gli occidentali hanno preteso d'insegnare a tutto il mondo qualcosa che altrove si era verificato ben prima dell'avvio delle loro sperimentazioni? E assicuravano (assicurano) davvero, quelle sperimentazioni, una condivisione effettiva del potere, o sono viceversa costruzioni politico-intellettuali raffinate magari, ma che instaurano nelle società che ne accettano i princìpi una sorta di a priori?

Il meritatamente fortunato saggio del 2006 di Luciano Canfora, La democrazia, recava un sottotitolo che molti considerarono una provocazione: Storia di un'ideologia. Il saggio di Cacopardo ci mostra bene la tensione fra un effettivo "governo di tutti", non il "comunismo" bensì il "comunionismo" dei kafiri peristani, e il complesso sistema di mistificazioni e di soprusi che, attraverso deleghe autolegittimate, sottrae alle genti la libertà concreta.

Padroni di dire che quello peristano è un "caso particolare" (ed eccome se lo è). Ma se fosse anche un segno per noi rivelatore e disincantante nel senso che Max Weber assegna al termine "disincanto"? Se fosse per noi la prova che il re è nudo? (Il Sole 24ore)

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