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BASSETTI: SAN FRANCESCO IL RIBELLE, L'OBBEDIENTE

Redazione online Mauro Berti
Pubblicato il 10-03-2018

Il libro di fra Enzo spiega la natura della “ribellione” di san Francesco, che consiste nella stessa obbedienza

Ringraziando per l’invito a questa bella iniziativa, saluto il vescovo di Assisi - Nocera Umbra -Gualdo Tadino, mons. Domenico Sorrentino;

Saluto il Custode del Sacro Convento, padre Mauro Gambetti, insieme alla grande famiglia francescana e a tutti gli intervenuti; saluto con affetto la presidente della Regione Umbria, Catiuscia Marini, e le autorità presenti e tutti i convenuti.

Saluto con particolare stima il direttore del Tg1, Andrea Montanari, e il direttore dell’Huffington Post Italia, dott.ssa Lucia Annunziata.

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Saluto e ringrazio l’autore del volume, padre Enzo Fortunato, che attraverso i mezzi di comunicazione sociale ci rende partecipi dei suoi studi; non è il caso che mi soffermi io sul suo curriculum, tra l’altro è il direttore della sala stampa del Sacro Convento di Assisi, collabora con varie testate giornalistiche e conduce seguitissime trasmissioni radiofoniche. Per la sua modernità di approccio, oltre che la profondità di contenuto, è stato chiamato «il divulgatore del messaggio 2.0 di san Francesco».

Oggi ci regala questo libro, dal titolo:

Francesco il ribelle. Il linguaggio, i gesti e i luoghi di un uomo che ha segnato il corso della storia

Mi sono chiesto anch’io, come tanti, il significato di un altro libro, nella già vastissima bibliografia su san Francesco; se lo è chiesto pure il cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato, che firma la prefazione.

«La risposta» scrive il cardinale Parolin «è che questo lavoro di Enzo Fortunato ha una sua caratterizzazione specifica. Si potrebbe dire che si tratta di una lettura ecclesiale del santo di Assisi. Perché non c’è dubbio sul fatto che Francesco sia anzitutto un uomo di Chiesa, fedele al Papa, e che la Chiesa cattolica si misuri costantemente con l’eredità evangelica del Santo di Assisi».

Un confronto più che mai vivo oggi che un Papa ha assunto consapevolmente, e coraggiosamente, di assumere il nome di Francesco, «mentre la Chiesa cerca ogni giorno di compiere quel cammino “in uscita”» chiestole appunto da questo Papa.

 

Il libro spiega la natura della “ribellione” di san Francesco, che consiste nella stessa obbedienza.

Tutto sta nel capire l’esatta portata dei termini. Ribellione e obbedienza: è lo stesso paradosso che incarna Gesù Cristo, quando tiene testa ai benpensanti, i burocrati della gerarchia e della élite di allora, per obbedire alla Legge del Padre suo: non per far legge per conto proprio o per fondare una casta o una setta o un partito (neppure un ordine religioso, nel caso di Francesco, ma solo una fraternità!), perché «neppure uno iota della Legge vada perduto».

Come quello di Gesù Cristo, «il sogno di Francesco è insieme il sogno di una modernità nel segno del Vangelo». Una modernità che è l’eterno presente della Parola, incarnata nell’azione, nell’andare per il mondo».

L’Italia dei Comuni stava generando una sensibilità nuova ed è all’interno di questa, vivendola appieno ma anche superandola, che Francesco vive la sua esperienza dilagante [p. 7].

Lo dimostrano l’arte e la poesia, che subito gli danno spazio, cominciando da Cimabue-Giotto e da Dante.

Persino il linguaggio di Francesco è rivoluzionario: è volto ad annullare gli antagonismi di una società basata sul potere e la forza delle relazioni familiari. Dalle fonti emerge la grande diffidenza del Santo verso espressioni che implicano il predominio o presuppongono uno stato d’inferiorità di talune persone. Francesco aborrisce parole come maestro e magnate ma anche superiore e priore. Come anche abate e abbazia.

Lo prescrive nella Regola: «E nessuno sia chiamato priore, ma tutti siano chiamati semplicemente frati minori. E l’uno lavi i piedi all’altro».

Mentre abbazia si riferisce alle “pertinenze dell’abate”, al “suo” territorio, la parola convento richiama il convenire, lo stare insieme, il luogo da cui ripartire. Diventano positive parole come fratello, fraternità e minore, piuttosto che superiore. Negli scritti di Francesco, ci insegna padre Enzo, la parola più usata è fratello. Il termine per indicare il responsabile di un gruppo di conventi non è superiore, ma custode, e il guardiano di un convento è colui che “guarda” l’altro nel senso che se ne prende cura.

In linea con il Vangelo e in perenne ascolto dialogante (mai scontato!) della parola del Signore, la ribellione di Francescoè anche quella della perfetta carità.

Il chiostro di Francesco è il mondo e lui rompe con ogni luogo chiuso, con ogni forma di divisione. Il suo verbo è andare verso e non aspettare. Sotto molti aspetti, “rompe” persino con le indicazioni di altri santi come Agostino, Bernardo, Benedetto.

Scrive Giorgio Agamben in un libro dedicato a Francesco [p. 40] che chi segue la regola non si obbliga, come avviene nel diritto, al compimento di singoli atti, ma mette in questione il suo modo di vivere, la sua stessa forma vivendi. Una «forma di vita», come scrive san Bonaventura. Alla regola si aderisce integralmente: forma e sostanza sono tutt’uno. Per Francesco, come per Cristo, la legge è la vita, e viceversa.

«Il Signore mi ha detto che questo egli voleva: che io fossi nel mondo un “novello pazzo”». Un pazzo, sì, ma per annunciare la follia del Vangelo nelle piazze e, diremmo oggi con il linguaggio del “nostro” Francesco attuale, nelle periferie del mondo.

Naturalmente bisogna intendersi sul significato di questa follia. Questo è appunto il valore e il significato del libro, dove i termini follia e ribellione vengono abbinati a sinonimi che non risulterebbero neppure nei migliori dizionari: obbedienza, allegria, docilità, mansuetudine. E dove sta lo snodo? Nella parola del Signore, che ci insegna questa stessa associazione, apparentemente contraddittoria. Chi segue il Vangelo, come Francesco, l’alter Christus per eccellenza, è al tempo stesso libero e obbediente, ribelle e docile, folle e appagato.

 

Sono molti i gesti di rottura, più o meno plateali: la rottura con la mondanità e le feste, l’abbraccio dei lebbrosi, il rifiuto della mentalità mercantile rappresentata a un certo punto dal padre. Nel rapporto con il Papato, la rivoluzione di Francesco è il non accontentarsi e l’andare oltre, anche qui per “andare verso”: è la ricerca appassionata del senso autentico che il cristianesimo incarnato rischia di smarrire; ma Francesco tradirebbe se stesso e il suo stesso percorso, se andasse anche contro la Chiesa. Perciò insiste con il confronto e lo spirito di obbedienza. In realtà, ammonisce l’autore, Francesco è ribelle contro il suo tempo che sta volgendo verso l’individualismo e la “società dell’avere”, non contro la Chiesa e neppure contro la gerarchia.

 

È un Francesco che già da giovanissimo, agiato, canterino, scanzonato, entra in conflitto interiore e non fa nulla per mascherarlo; scaccia il mendicante che era entrato nella bottega paterna e poi si pente e prova acuto rimorso; pratica una prodigalità estrema, impulsiva; con i lebbrosi si converte, anzi si lascia travolgere, andando dalla ripulsa allo slancio. Non è certo uno che si maschera o si tira indietro, non è uno che ama le mezze misure; per lui cavalleria e cortesia non significano ipocrisia, anzi vengono portate alle estreme conseguenze. È il ragazzo che quando sente parlare dell’amore di Dio prova un intimo turbamento, un rimescolamento; per lui, pur essendo colto, non era certo un fatto formale o letterario l’innamoramento e lo sposalizio con Madonna Povertà.

Impugna le armi Francesco, da giovanissimo, pensando di spendersi per una buona causa, ma anche lì riesce a dar prova del suo temperamento quando, in carcere, con la sua predisposizione alla gioia riesce a sciogliere il cuore di «un cavaliere superbo, un caratteraccio insopportabile», che tutti cercano di emarginare. La pazienza di Francesco non si spezza e, a furia di sopportare quell’intrattabile, riesce a ristabilire la pace fra tutti (lo narra Tommaso da Celano) [p. 18 del libro].

Come abbiamo visto, dunque, la ribellione di Francesco si accoppia a strani sinonimi, inconsueti: pazienza, mansuetudine, obbedienza, mitezza, cavalleria. Il punto di snodo è descritto da lui stesso nel Testamento, quando racconta l’incontro con i lebbrosi, ardente come era stato tutto il resto (la vita mondana, la corsa in Puglia per fare il crociato fermata a Spoleto da uno strano malessere, la missione a Roma come commerciante da cui tornò mendicante): «E allontanandomi da essi [i lebbrosi], ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza di animo e di corpo».

È il Francesco che si cala nella vita e nel mondo senza paura di sporcarsi le mani, cerca il contatto intimo con le profondità di sé stesso, senza finzioni, e con il vescovo della sua città, amata e difesa ma mai idolatrata – ecco un altro sostanziale punto di snodo. Pronto a seguire il vessillo di un ideale che riteneva giusto – la Crociata, la riparazione materiale di una chiesa – era altrettanto pronto a mirare più in alto – duc in altum! – quando intravedeva ciò che rischiava di essere nascosto e soffocato da maschere e vestiti. Pronto, come sappiamo, a spogliarsi dei rivestimenti esteriori (e non solo metaforicamente!) quando si rivelano un impedimento al santo viaggio.

E c’è da intendersi anche sul significato di questo “viaggio”, di questo “andare verso”. Acutamente l’autore sottolinea [p. 32], rifacendosi anche a Massimo Cacciari, la natura di questo movimento in uscita, che si differenzia persino dall’idea di pellegrinaggio.

«Il cammino di Francesco è un correre verso l’altro. Ogni staticità nella relazione di prossimità viene travolta dalla gioia che dona questo volare all’altro, libero da ogni impedimento». Nelle immagini dantesche Francesco «corre, corre via dal padre che lo vuole trattenere, corre dietro alla sua amata Madonna Povertà, corre senza perdere la letizia, senza alcuna melanconia. La sua strada non ha altra meta che non sia l’uomo, ovunque egli si trovi, a Gerusalemme come a Damietta, a Betlemme come a Gerico».

Soprattutto «è interessante notare come il cammino di Francesco sia animato dal pacificare» (un altro termine che non assoceremmo alla ribellione). Ne sono testimonianza i suoi numerosi incontri con gesti rivoluzionari, ribelli in quanto controcorrente. È esemplare quello con i briganti, i malviventi, addolciti da un comportamento amorevole e gioioso.

«Il ribelle è infatti colui che dice no a sistemi iniqui, perversi, accomodanti. Che rinuncia ai “sì” sporcati dal tornaconto personale o da compromessi che non rispettano le persone. Da dogmatismi che non permettono di cogliere il cuore della vita, il battito delle persone». 

Il cardine della sua prima rivoluzione passa anche per la rinuncia alla proprietà e all’uso del denaro: i frati, infatti, lavorano e servono gratuitamente, per una rivoluzionaria economia. In un’epoca in cui cominciava a circolare moneta e la ricchezza si concentrava nelle mani di pochi, Francesco e gli altri lavorano per servire e non per accumulare, come Francesco ribadisce nel Testamento; «non vogliono entrare nel sistema dei vincoli, delle donazioni, delle elargizioni o dei favori, ma desiderano rimanere liberi e indipendenti».

Nella Regola non bollata vengono addirittura proibite alcune attività non perché illecite, ma perché non evidenziano l’attenzione ai bisogni degli altri. Al capitolo VIII [p. 49] Francesco «invita i frati a manifestare all’altro la propria necessità con fiducia e ciascuno è chiamato ad amare e nutrire il proprio fratello come la madre ama e nutre il proprio figlio. È il cuore di un nuovo umanesimo che il figlio di Bernardone desidera esprimere attraverso l’esemplarità dei rapporti fraterni, in una società dal cuore indurito dalle nuove forme di commercio e guadagno».

 

[p. 42] Come cerca e ritiene imprescindibile il rapporto, l’approvazione e la buona armonia con il Papa, al quale sottopone la sua Regola a testa alta e non con servilismo (così lo dipingono sia Giotto sia Dante), Francesco testimonia e propugna «una Chiesa cristiana che gli permette, a sua volta, di rivolgersi a tutti, di riannodare i rapporti con tutti». Celebre. bellissima e attualissima è la Lettera ai Reggitori dei Popoli che, «senza remore e con schiettezza evangelica, esorta i detentori del potere politico a essere retti, a pensare alla povera gente».

Molto bene l’autore ne evidenzia i tre momenti: «il primo è l’invito alla lode, lode al Signore, che Francesco trae dall’esperienza del suo viaggio a Damietta quando avrà ascoltato e visto i muezzin; il secondo è l’appello ad avere chiara la gerarchia dei valori della propria esistenza; infine a mettere al centro del loro programma “politico” il bene comune, l’attenzione a non chiudersi nel proprio io ma pensare agli ultimi e ai poveri» [la lettera A tutti i podestà e ai consoli, ai giudici e ai reggitori di ogni parte del mondo, e a tutti gli altri ai quali giungerà questa lettera è a p. 44].

Anche la contemplazione della bellezza, quale emerge per esempio dal Cantico di Frate Sole, mette in luce aspetti nuovi in questo libro [p. 78]:  «La novità di Francesco, che lo distanzia dai movimenti pauperistici presenti nella sua epoca, sta nella percezione della bellezza che la natura emana perché creata da Dio. L’ascetismo, anche il più ortodosso, fino ai movimenti ereticali contemporanei a Francesco, rifiutava il mondo terreno e non poteva giungere ad abbracciare tutti gli aspetti del creato. Nelle Lodi di Francesco la materia solleva il corpo per volgersi a Dio. Così l’uomo solleva se stesso e il mondo con tutte le sue bellezze, malattie, sofferenze che diventano prova, non solo espressione, dell’amore divino».

Molto bello anche il capitolo dedicato a Chiara, che risente a sua volta della tempra di Francesco e anche della propria, e l’appendice che contiene le preghiere di Francesco e le più significative a lui dedicate, da quella di san Giovanni Paolo II a quella di santa Teresa di Calcutta, da quelle di Papa Francesco al Canto di una creatura di Alda Merini.

Molte sono nel libro le citazioni di vari autori, filosofi e storici (fra gli altri Franco Cardini e Chiara Frugoni) e anche poeti, come Emily Dickinson. Una citazione che mi è tanto cara è quella [p. 72] del mio conterraneo Dino Campana, che «volle seguire le tracce di Francesco, proprio lì dove rischiò di perdersi senza trovare la via del ritorno, tra le ‘altezze mistiche della Verna’. Sul suo diario si trovano queste parole: “Il santo appare come l’ombra di Cristo, rassegnata, nata in terra d’umanesimo, che accetta il suo destino nella solitudine. La sua rinuncia è semplice e dolce: dalla sua solitudine intona il canto alla natura con fede: Frate Sole, Suor Acqua, Frate Lupo. Un caro santo italiano”».

Dino, durante i suoi viaggio solitari, si rispecchia nelle solitudini mistiche della Verna e in qualche modo intuisce quella di san Francesco quando si trova isolato dai compagni e travagliato dai dubbi, come Cristo sul Calvario, tentato in quella che era una delle sue caratteristiche più insistite e anche più libere ed evangeliche: la gioia.

Naturalmente Dino proietta nel Santo qualcosa di sé e della sua storia molto particolare; ma forse riesce a intuire la sottigliezza del rapporto non facile fra obbedienza e ribellione, che a ben guardare è lo smarrimento in cui si trova il cristiano al bivio tra adesione a Cristo e alla Chiesa da Lui fondata, e tentazione di andare per conto proprio. Di nuovo, Francesco dovette mettersi in ascolto, e fu anche questa una ulteriore “ribellione”, con una grande vittoria che sarebbe durata nei secoli.

Come ha ricordato Papa Francesco nella Meditazione mattutina nella cappella della Domus Sanctae Marthae giovedì 11 aprile 2013, praticamente all’inizio del suo pontificato, l’obbedienza è ascolto che rende liberi. Spiegava il Papa che, molti secoli dopo, aveva deciso di assumere il nome del Santo di Assisi: «Dio non può essere oggetto di negoziato. E la fede non prevede la possibilità di essere “tiepidi”, “né cattivi né buoni” (come ammonisce l’Apocalisse), cercando con una doppia vita di arrivare a un compromesso per uno status vivendi con il mondo». Fu questa la nuova ribellione di obbedienza che santificò Francesco, mettendosi in ascolto di Dio e Dio soltanto, proprio nel “deserto” della Verna.

 

Commentando la risposta di Pietro al Sinedrio: «bisogna obbedire a Dio invece che agli uomini» (At 5, 27-33), il Pontefice si chiede: «Cosa significa obbedire a Dio? Significa che noi dobbiamo essere come schiavi, tutti legati? No, perché proprio chi obbedisce a Dio è libero, non è schiavo! E come si fa questo? Io obbedisco, non faccio la mia volontà e sono libero? Sembra una contraddizione. E non è una contraddizione». Infatti «obbedire viene dal latino, e significa ascoltare, sentire l’altro. Obbedire a Dio è ascoltare Dio, avere il cuore aperto per andare sulla strada che Dio ci indica. L’obbedienza a Dio è ascoltare Dio. E questo ci fa liberi».

Naturalmente il Papa non poteva che parlare di strada, e anche padre Enzo nel raccontare “Francesco il ribelle” cita le sue strade, i suoi tanti percorsi e gli infaticabili itinerari. La Chiesa, ricordava il Papa appena eletto, ci invita ad «andare per la strada di Gesù» e a «non sentire quelle proposte che ci fa il mondo, quelle proposte di peccato o quelle proposte così così, metà e metà»: un modo di vivere che «non va» e «non ci farà felici». Anche se andare per le strade di Gesù costa persecuzione e tanti sono anche i martiri «che hanno messo la carne al fuoco», ricorda il Papa.

Mi è cara infine la sottolineatura che fa Dino Campana su san Francesco come «caro santo italiano»: questa mia, nostra Italia, la patria che san Francesco amò tanto e che Egli rappresenta ancora. La sua figura – quella vera, quella che emerge da questo libro – è oggi più che mai emblema del nostro Paese, è la nostra fierezza, una delle voci e delle espressioni più autentiche, la forza di cui dovremmo essere orgogliosi e che dovremmo valorizzare sempre meglio. 

Diceva il Papa il 4 ottobre 2013, in visita pastorale ad Assisi, che la pace francescana non è un sentimento sdolcinato. «Per favore: questo san Francesco non esiste! E neppure è una specie di armonia panteistica con le energie del cosmo… Anche questo non è francescano, ma è un’idea che alcuni hanno costruito! La pace di san Francesco è quella di Cristo, e la trova chi “prende su di sé” il suo “giogo”, cioè il suo comandamento: Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amato (cfr Gv 13,34; 15,12). E questo giogo non si può portare con arroganza, con presunzione, con superbia, ma solo si può portare con mitezza e umiltà di cuore».

Il Santo Padre, il provvidenziale Francesco dei nostri tempi, concludeva con una preghiera «per la Nazione italiana, perché ciascuno lavori sempre per il bene comune, guardando a ciò che unisce più che a ciò che divide».

Questo vuole essere anche la mia preghiera, il mio augurio e la mia benedizione, e grazie al Signore che ha ispirato questo nuovo libro che riaccende l’interesse sulla figura di Francesco come realmente è e come può ancora illuminare il nostro cammino oggi e per il futuro.

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