PAROLA POVERA: Paradiso
‘Il Paradiso in Terra’: usiamo questa espressione con disinvoltura dando già
per scontata una evidente secolarizzazione del ‘paradisiaco’. Per alcuni è
un’isola in mezzo al mare, per altri una fresca montagna lontano dal caos e
dalle preoccupazioni, per qualcuno solo un posto dove si può mangiare bene
e magari quanto si vuole, per altri ancora un luogo di straordinaria bellezza o
quello dove non si devono più pagare le tasse (paradiso fiscale). Che lo si
proietti in un altrove più o meno lontano, più o meno raggiungibile, più o
meno realistico, o lo si collochi ad un passo da noi – per esempio
semplicemente perché abbiamo accanto la persona amata: ‘When I'm with
you it's paradise / No place on earth could be so nice’ cantava la dozzinale
Phoebe Cates nell’omonimo e ingenuo teen movie anni ’80 - e lo si veda
come una stazione, in genere l’ultima, infinitamente spirituale o
straordinariamente materiale, il paradiso è innanzitutto nostalgia. La
nostalgia di ciò che abbiamo perso e che vorremmo riconquistare, il
traguardo cui pensiamo spesso come niente più che un sogno.
Perché il Paradiso, perlopiù e in tutte le religioni in cui è sempre presente
(buddismo, cristianesimo, induismo, islamismo), che sia un luogo perduto o
da conquistare è proiettato in un’aura di purezza e di splendore, mito della
perfezione iniziale. Fin da quella apparizione, la prima per quanto se ne
sappia finora, in una tavoletta protosumerica in cuneiforme con il nome di
Dilmun: non ci sono né malattie né violenze ed è per questo che viene
considerato l’antenato dell’Eden biblico. Una dimensione apparentemente
così distante da quella che i mortali sono costretti a vivere che la natura
stesse dei suoi abitanti, gli angeli, è stata oggetto di indagini e controversie
teologiche senza fine (ecco perché definiamo ‘paradiso’ ogni dimensione che
ci appare che ci appare lontana dalla nostra (grama?) esistenza.
A seconda della prospettiva, il Paradiso può essere caratterizzato da
assenza (di violenza, come abbiamo visto, o di desiderio e affermazione
dell’individualità, come pensa il buddismo) o presenza debordante (natura
lussureggiante, ricchezza, delizie e piaceri di ogni sorta come nell’islamismo:
anche se El Oxford, un beduino che deve liberare un giovane principe in una
delle avventure di Hugo Pratt, smaschera e rimprovera Corto Maltese nel
racconto ‘Nel nome di Allah il misericordioso’ quando l’amico marinaio per
consolarlo mentre è in fin di vita gli recita la sura ‘Beato El Oxford che inizia
una nuova vita, piena di belle donne e vino’. E il compagno di avventure:
‘Ah... Corto, Corto... maledetto buffone... non esiste una sura così bella’).
Solo per Fantozzi anche il Paradiso è il luogo di una vita mesta e sfortunata,
come in ‘Fantozzi in Paradiso’, film di Neri Parenti del 1993.
Ecco perché il Paradiso rivela, come hanno ben spiegato Guy Stavrides e
Pierre-Antoine Bernheim in ‘Paradiso Paradisi’, la storia delle nostre nostalgie
(che in Fantozzi sembra la nostalgia della sua perenne condizione). Quello
che cerchiamo è il giardino beato di una condizione, più che un luogo vero e
proprio. Perché questa è anche l’etimologia della parola: il greco paradeisos,
che significa proprio giardino e deriva dal persiano paraidaeiza, da cui anche
l’ebraico pardes cioè ‘luogo recintato’, ‘verziere’, ‘parco’. Per arrivarci è
necessario un percorso e l’unico mortale cui sembra essere stato concesso è
dante che nell’XI Canto vi colloca proprio San Francesco, nel cielo del Sole
dove risiedono gli spiriti sapienti. Anche se il paradiso di Francesco potrebbe
somigliare più a quello descritto da Patty Pravo: un luogo dove puoi trovarti
se solo scopri il molto che già hai.