PAROLA POVERA: Mendicare

Chi ha paura del mendicante? E soprattutto, perché? L’origine della parola ci mette subito sulla strada: mendicare è derivato del latino mendìcus, che significa semplicemente povero. Dunque l’atto del medicare appartiene a chi è povero (con una estensione, cui poi accenneremo, a forme di povertà non solo materiale) e finisce per rientrare nel vasto e variegato insieme della minacciosità del diverso che ha portato, fra l’altro, al dibattito sulla legittimità e i limiti dell’elemosina e all’intervento recente della Corte dei diritti umani. Mendicare è un verbo al tempo stesso intransitivo e transitivo e non a caso: si mendica senza alcun oggetto perché l’oggetto è già in un certo senso implicito nel verbo (si chiede qualcosa che permetta di sopravvivere: soldi, cibo, indumenti) oppure si mendica qualcosa in particolare: attenzione, riconoscimenti, uno sguardo. Fino alla vita stessa: “Mendicando sua vita a frusto a frusto” (cioè pezzetto per pezzetto) scrive il poeta nel Canto VI del Paradiso a proposito di quel Romeo di Villanova costretto dall’invidia e dalle calunnie a ridursi povero da anziano e a dover girare e mendicare. Figura che rimanda allo stesso Dante, il quale descrive così il suo esilio nel terzo Capitolo del Convivio: “Per le parti quasi tutte a le quali questa lingua si stende, peregrino, quasi mendicando, sono andato” e sottolinea: “Mostrando contra mia voglia la piaga de la fortuna, che suole ingiustamente al piagato molte volte essere imputata” (da cui l’accentuazione dl disagio, di cui stiamo per parlare, e del senso di colpa).

La condizione del mendicante è quella di una privazione, di una mancanza che si cerca di colmare con una richiesta: è proprio questo chiedere, che presuppone coraggio, messa a nudo, consapevolezza a creare quel disagio di cui si parla anche in una celebre canzone rock dedicata alla vita di un senzatetto, condannata alla ripetizione circolare dell’esclusione sociale: in Aqualung dei JethroTull, formazione del progressive rock inglese degli anni ‘70, dove il minaccioso eppure innocuo straccione si sente a disagio (uneasy) rispetto alle vite che gli scorrono intorno mentre trascina il suo passo coperto da abiti logori e si piega a raccogliere un mozzicone di sigaretta. Disagio rovesciato nella celebre Beggar’s Opera (L’Opera del mendicante) di John Gay, satira della società inglese aristocratica e borghese del ‘700 in cui a pagare erano sempre i poveri e che ispirò, non per caso, l’”Opera da tre soldi” di Brecht nel 1928. Qui il mendicante è addirittura deus ex machina, che libera nel finale il delinquente.

L’idea di non rifiutare la povertà come diversità ma anzi di accoglierla e dunque di corrispondere all’elemosina come gesto di condivisione di un bene che non può rimanere nelle mani solo di alcuni (magari corrotti come in Beggar’s Opera), si deve proprio all’opera degli ordini mendicanti. Sia che ci si metta, come Francesco, letteralmente nei panni degli altri per vivere l’esperienza dell’elemosina e della poco generosità (come fanno oggi reporter coraggiosi che diventano clochard o migranti per una notte o più) sia che, come San Martino, icona eterna dell’elemosina, si tagli con la spada il mantello di lana per dividerlo con un mendicante sofferente per il freddo.

Ecco anche perché è un’offesa alla dignità umana impedire a qualcuno di chiedere l’elemosina senza recare disturbo: lo ha stabilito, nel gennaio 2021, la Corte europea dei diritti dell’uomo dopo che il cantone di Ginevra aveva condannato una giovane donna rumena al pagamento di 500 franchi svizzeri e alla pena detentiva di cinque giorni.

(Massimo Sebastiani)