PAROLA POVERA: Pace

La pace è fatica, letteralmente. Forse per questo la parola è così poco frequentata dagli indagatori del lessico che alla lettera P in genere gliene preferiscono sempre altre: potere, problema, persona, partecipazione o magari paura e passione. Maneggiare la pace è complesso, come succede per tutte le cose semplici. Perché la pace, come scriveva Tacito, non è un deserto (‘Fanno il deserto e lo chiamano pace’, ‘Ubi solitudinem faciunt, pacem appellant’) ma qualcosa che dobbiamo continuamente ricercare: ‘La pace non è una paradisiaca condizione originaria né una forma di convivenza regolata dal compromesso. La pace è qualcosa che non conosciamo, che soltanto cerchiamo e immaginiamo. La pace è un ideale’, scriveva Hermann Hesse nell’immediato secondo dopoguerra.
Ne sa qualcosa, di fatica, anche il povero viticoltore Trigeo che, nella ‘Pace’ di Aristofane, scritta, non a caso, nel bel mezzo della Guerra del Peloponneso, sfinito dalle carestie e dalla povertà seguita alla guerra, decide di arrampicarsi in cielo per raggiungere l’Olimpo così da chiedere la fine di ogni contesa direttamente a Zeus. L’irriverente Aristofane parodizza l’Euripide di ‘Bellerofonte’ che aveva dato vita a Pegaso, bellissimo destriero alato. Il massimo di cui Trigeo può disporre è infatti un gigantesco scarabeo stercorario nutrito con polpette di escrementi dai servi del vignaiolo. Con lui arriva fino al monte Olimpo ma Zeus e i suoi amici se ne sono già andati, disgustati dal comportamento degli uomini. L’unico rimasto è proprio Polemos, il dio della guerra e della contesa, che ovviamente tiene prigioniera Eirene, cioè proprio la Pace. Trigeo riesce a liberarla e dopo le sue nobili fatiche avrà in sposa Opora, la dea dell’Abbondanza.
L’etimologia non è sempre tutto ma forse stavolta l’origine della parola ci spiega qualcosa, il perché della fatica in particolare. La parola pace ha la sua radice nel sanscrito “paç/pak/pag” che vuol dire “Unire, legare”. Quindi costruttore di pace è chi si adopera ogni giorno ad unire, non a dividere. Non crea divisione, ma fluidifica i rapporti. Si apre, ascolta, negozia se serve. E’ il latino, poi, ad aver cambiato le carte in tavola. Nella lingua dei Romani infatti, il termine pax usato come interiezione (in Plauto, Terenzio e Petronio, per esempio) significa Basta! Zitto! Silenzio!. Questa è, come sottolineano Massimo Arcangeli e Edoardo Boncinelli in ‘Le magnifiche cento – Dizionario delle parole immateriali’, una pace che non ammette repliche ‘che anziché tendere una mano ai diritti delle persone li silenzia’, e, come si vede, ci ricorda il deserto e la solitudine di Tacito piuttosto che l’accordo, l’amore, la prosperità.
E forse per questo, in tante espressioni che usano il termine pace (come per esempio ‘pace armata’), il suo valore antifrastico è evidente. Sono espressioni di questa stessa famiglia anche Pax Romana, pax Augustea, pax Hispanica e via dicendo, dove dietro la parola pace fanno capolino altri concetti (e altre pratiche), come l’assoggettamento e l’imposizione, la condizione di supremazia rispetto a qualcun altro che dunque, e solo per questo, resta in pace. E’ una deriva abbrutita della pace, è piuttosto ‘pacificazione’.
Essere invece strumento di pace, come vuole Francesco nella sua preghiera semplice, significa proprio il contrario: dare, non ricevere, aprirsi, non imporre. Questo significa ‘dare alla pace una possibilità’ come cantava John Lennon in quella che è passata alla storia, guarda caso, come ‘una canzone semplice’.

(Massimo Sebastiani)