PAROLA POVERA: Vendere

Vendere, sì ma cosa? E soprattutto perché? Le ‘cose che non metti più’, come recita una pubblicità martellante di una fortunata app diretta soprattutto ai giovani? Eliminare le cose che non ci piacciono, travolte dal turbinare impetuoso dei cambiamenti della moda, particolarmente volatile quando si è giovani, è un vendere per ‘fare affari’, per capitalizzare e magari riutilizzare i soldi per acquistare, e dunque possedere, abiti o oggetti che qui ed ora ci piacciono di più. Anche se c’è chi ha giustamente notato che vendere l’usato per ricomprare educa almeno al riuso e alla circolarità.
Ma quando si parla di vendere si pensa di primo acchito soprattutto a qualcos’altro: magari possono venire in mente le vendite all’incanto (bellissima parola: qui in realtà si usa per indicare la presenza del pubblico, la vendita fatta sotto gli occhi di tutti, con l’asta e la competizione tra offerenti che vogliono l’oggetto ma temono di scoprirsi troppo e di far salire il prezzo alle stelle); certe canzoni, come Mi vendo di Renato Zero, dove il dibattito sul reale significato dura più o meno dal 1977 e il cantante ha sempre giocato sull’ambiguità del testo che richiama anche la (s)vendita della propria identità o ‘Le parole’, con testo di Gianni Rodari e musica di Sergio Endrigo (‘abbiamo parole per vendere e parole per comprare) o ancora quel ‘Selling England by the pound’ dei primi Genesis che lanciavano una sorta di allarme doloroso per quella che a loro sembrava la svendita dell’essenza e dello spirito inglese per interessi economici e sudditanza alle grandi potenze (cioè, all’epoca, gli Stati Uniti).
Per non parlare della metafora assoluta e tragica su una società basata sulla vendita ad ogni costo (e quindi, per converso, sul consumo sfrenato) contenuta in ‘Americani’, traduzione una volta tanto esemplare di un titolo che ad un pubblico non americano non avrebbe detto molto (‘Glengarry Glen Rose’, dal nome dell’area della Florida dove ci sono lotti da vendere): il film, tratto dalla piece di David Mamet vincitrice del Pulitzer, è in effetti uno spaccato della società americana e dei suoi interpreti più tipici: un gruppo di agenti immobiliari mortificati (‘Fate pena’, dice Blake, arrivato dalla sede centrale sferzare i venditori) e aizzati tanto da renderli disposti a divorarsi pur di affermarsi.
In tutti questi casi nel verbo vendere prevale l’etimologia del latino ‘venum’, venduto (vendere è uguale a venum dare) che è anche alla radice di un’espressione come ‘venale’, che significa appunto che si può vendere o comprare, che diventa oggetto di lucro. Ma una vendita così si può rifiutare, si può scegliere di vivere diversamente dagli ‘americani’ di Mamet (nipotini di Frank Bettger, il ‘venditore meraviglioso’ che dal 1949 ad oggi ha sempre rappresentato il paradigma della motivazione al consumo). ‘Non voglio il mondo che tu mi vuoi vendere’, dice più modestamente Marrakash con l’aiuto di Guè Pequeno in una canzone di un certo successo.
In un certo senso il gesto della vendita di Francesco a Foligno richiama piuttosto l’idea di circolarità e condivisione: ma è una circolarità povera e spirituale, più vicina alla carità, alla beneficenza e al microcredito, diremmo oggi, ad un concetto mistico e personale di charity. Perché il ricavato di vesti e cavallo era destinato da Francesco al restauro della chiesa di san Damiano e alla fondazione, potremmo dire oggi, di un nuovo mondo, diverso da quello mercantile cui il padre lo aveva iniziato: e quel gesto precede di poco quello più assoluto e definitivo: lo spogliarsi di tutto per rivelarsi nella sua nudità- verità.

(Massimo Sebastiani)