PAROLA POVERA: Rinucia
Ci sono parole che vanno di moda (sostenibilità, ce ne siamo occupati, è
una; o resilienza o magari divisivo) e ce ne sono altre che tornano, a volte, di
moda (resilienza, postura). Ma alcune sembrano non riuscire ad emergere
dall’angolo in cui una lettura prevalente e non sempre corretta le ha costrette.
Sono tante le parole il cui destino è segnato dal predominio di una delle due
(o molte) facce da cui è spesso formata.
E’ il percorso, la storia di quella parola che ne ha segnato il destino nel
momento in cui il corso impetuoso di un fiume che potrebbe disperdersi in
mille rivoli sceglie una sola direzione. È successo a parole come crisi o
prudenza, per esempio, in cui l’accezione percepita dai più come negativa ha
alla fine inesorabilmente prevalso.
Rinunciare è una di queste parole. In pieni anni ’70 un cantautore che aveva
appena da poco pubblicato il suo album forse più fortunato, Francesco
Guccini, torno sulla scena con ‘Stanze di vita quotidiana che conteneva’
anche ‘Canzone della triste rinuncia’: era triste perché era la rinuncia a quello
che non si poteva o sapeva essere. Dunque, in realtà, una forma di maturità,
di accettazione. Eppure la coloritura, la sfumatura, anche per lo stesso
Guccini, era inevitabilmente triste.
Solo in tempi recenti e grazie allo slogan della decrescita felice, alcuni
hanno cominciato a guardarla (e quindi pronunciarla e usarla) con occhi
diversi. Sottrarre, togliere, levare, come succede per esempio nella scultura o
anche nell’arte di recitare, sono stati promossi dal pensiero e dalla lingua
contemporanea proprio mentre nelle nostre case e nelle nostre vite trionfano
il minimalismo e la filosofia del riordino di Marie Kondo (l’autrice del best
seller in cui si spiega che il problema non è avere poco spazio ma possedere
troppe cose). Anche in questo, sorprendentemente ma non troppo,
Francesco è stato straordinario precursore.
Eppure, come spesso accade, l’origine o quantomeno il percorso e la
formazione di una parola ci dicono già molto della sua ricchezza.
Nell’espressione risuona il ‘nunciare’ (come in annunciare, pronunciare ma
anche denunciare) perché rinunciare deriva da renuntiare composto da ‘re’
(contro, in replica) e ‘nuntiare’, cioè annunciare, dichiarare. Quindi un
annunciare in risposta. Con la rinuncia si dichiara qualcosa di forte:
l’abbandono, l’astensione, l’allontanamento. Esattamente come nella
preghiera battesimale si rinuncia al male. È un dire ‘no’ e i no, lo abbiamo
imparato di recente anche nella psicologia infantile, aiutano a crescere.
Dunque la rinuncia è un atto di individuazione, direbbe la psicanalisi, e di
crescita (proprio come lasciava intendere anche Guccini). Ogni rinuncia, ogni
‘no’, è anche un’affermazione, magari pubblica proprio come quella di
Francesco. È l’affermazione di se stessi, della propria singolarità e autenticità
e in questo è in contraddizione con un altro significato del termine, la rinuncia
come smettere di sperare, creder, lottare, provare: il contrario cioè di quella
resilienza (per tornare alla parola di moda da cui eravamo partiti) che in
qualche modo alberga anche nel cuore della rinuncia se la si concepisce
come capacità di affermare se stessi nonostante tutto. Per questo c’è chi,
come Martin Heidegger, ha detto che la rinuncia non toglie ma dona: ‘dona la
forza inesauribile dell’infinito’. E il pedagogista Ivan Illich l’ha concepita non a
caso come ‘la precondizione logica dell’amore’.
(Massimo Sebastiani)