PAROLA POVERA: Ospitalità

Dietro il termine ospite, da cui il verbo ospitare deriva, fa capolino sempre l’incerto, lo scarto, la sorpresa. L’ospite può certo essere ‘cortese’ e ‘gentile’ ma più spesso, nella letteratura, a teatro, al cinema, è ‘inatteso’, quando non addirittura, proprio perché non previsto e magari non riconosciuto, ‘inquietante’.
Questo elemento di estraneità e di ambiguità è già contenuto nell’origine della parola. Il termine greco che designa l’ospite è xènos, che indica lo straniero con una oscillazione semantica che in latino viene ereditata dalla coppia di parole hostis/hospes: con la stessa radice, la prima indica il nemico e la seconda l’ospite. C’è chi ritiene che il passo decisivo la nostra civiltà l’abbia fatto quando lo straniero, il diverso, forse il nemico, è diventato ospite, cioè è stato accolto. Il forestiero era, ed è stato nella storia e in quella storia che si riverbera nelle parole e nel loro uso, da sempre anche nemico o quanto meno guardato con sospetto e infatti appellato con termini dispregiativi: dal beota che giungeva dalla Boezia (ed era per gli antichi greci un idiota) al busgnach piacentino che indica il bosniaco e veniva usato nel senso di subdolo e sleale, come ci ricorda il linguista Gian Luigi Beccaria nel suo ‘Tra le pieghe delle parole’. Dove si sottolinea infatti che solo in rari casi il nome dello straniero o anche dell’invasore “ha potuto assumere significati altamente positivi”.
Ospite però è anche una parola specchio: indica chi viene ospitato e al tempo stesso chi ospita. E’ quella che viene chiamata enantiosemia, cioè quella particolare forma di polisemia (molteplicità di significati) in cui la parola ha due significati opposti. La parola ospite deriva dal latino hospes-itis, che aveva già il doppio significato di ‘colui che ospita, albergatore’ e di ‘colui che è ospitato, forestiero’. La doppia accezione è rimasta in quasi tutte le lingue romanze; francese (hôte); occitano e catalano (oste); spagnolo (huésped) e portoghese (hóspede).
Questo significato di hospes fa riferimento a contesti in cui i rapporti che si instauravano tra chi accoglieva e chi era accolto erano stretti e vincolanti e generavano un rapporto di reciprocità, un vero e proprio patto di ospitalità così profondo da rendere questi due ruoli intercambiabili, tanto da essere identificati dallo stesso termine (e ospizio, in origine, aveva proprio il significato di luogo deputato all’ospitalità). Questo passo decisivo, come l’abbiamo definito prima, è avvenuto già nel mondo greco, confermato in quello latino e rafforzato dal cristianesimo: ‘L’ospite che bussa alla nostra potrebbe essere Zeus sotto mentite spoglie’ scrive Omero. E infatti nei suoi poemi l’ospitalità è un obbligo sacro e distingue i selvaggi che non ospitano

(Polifemo) dai ‘civilissimi’ che ospitano (i Feaci): tutto il viaggio di Ulisse è reso in realtà possibile proprio dall’ospitalità. E in fondo è per questo che Ulisse può, non riconosciuto, rientrare nella sua casa di Itaca fino a sfidare i Proci.
Abramo fece lo stesso (Genesi, 18), alle querce di Memre con i tre personaggi che sono in realtà uno (il Signore) e che lui accoglie senza alcun dubbio: ‘Lavatevi, accomodatevi, ristoratevi…’. Non è un caso che, secondo il teologo Jean Danielou, la civiltà non nasca tanto da grandi scoperte quanto con un atto di ospitalità che trasforma il potenziale hostis in hospes. Ma anche Chanakya, filosofo, giurista e insegnante indiano vissuto in un’età non troppo precisa a cavallo tra terzo secolo prima e dopo Cristo, sentenziava: ‘Tutte le divinità si rallegrano, tutti i veggenti cantano, tutti gli antenati danzano quando un ospite entra nella nostra casa. E siccome l’intreccio delle parole non è mai casuale e anzi riflette la ricchezza della storia e dei suoi mutamenti, l’espressione ‘gentile’ , nata per indicare chi non è ebreo o cristiano finisce per diventare un aggettivo positivo sottolineando l’elemento che deriva da gens e dunque ‘che appartiene alla stessa schiatta’.
Naturalmente, da Jahvè a Ulisse, l’ospite inteso anche come diverso, porta con sé mutamenti, può anche metterci in difficoltà, interrogarci, sottrarci alla nostra comfort zone, come si direbbe oggi: anche quando è un trentenne in giro per case di amici e parenti da cui ricava indizi di vita che non aveva immaginato (‘L’ospite’, il film del quarantenne Duccio Chiarini) o una donna appena uscita da un centro di salute mentale che prova il reinserimento nella società ‘normale’ (ancora ‘L’ospite’, stavolta del 1971 e di Liliana Cavani). Fino a risultare perturbante (Unheimlich in tedesco, che non ci fa sentire a casa) come il nichilismo di Nietzsche.

(Massimo Sebastiani)