di Tommaso da Celano
La mirabile origine della sua religione
[821] Nel primo capitolo di questa narrazione, nella quale ci siamo sobbarcati a scrivere i miracoli del santissimo padre nostro Francesco, abbiamo ritenuto bene collocare, primo di ogni altro, quel prodigio solenne dal quale il mondo fu come avvertito, scosso e terrorizzato. Tale fu appunto la nascita della Religione, fecondità della donna sterile, generazione di una discendenza con tante ramificazioni.
[822] Guardava con preoccupazione il vecchio mondo imbrattato nel sudiciume dei vizi, gli ordini (sacri) insensibili agli esempi degli apostoli e, mentre la notte dei peccati era a metà del suo corso, era imposto il silenzio alle sacre discipline; quand’ecco, all’improvviso, emerse sulla terra un uomo nuovo, e all’apparire subitaneo di un nuovo esercito i popoli furono
ripieni di stupore davanti ai segni della rinnovata eta` apostolica.
È ora d’un tratto portata alla luce la perfezione già sepolta della Chiesa primitiva, di cui il mondo leggeva sì le meraviglie, ma non vedeva l’esempio. Perché dunque non si potrà dire che gli ultimi saranno i primi, quando ormai si sono, mirabilmente, trasformati i cuori dei padri nei figli, e quelli dei figli nei padri? O si potrà forse misconoscere il compito così celebre e famoso dei due Ordini e non ritenerlo come presagio di qualcosa di grande che debba accadere tra breve? Di fatto, dal tempo degli apostoli, non fu mai proposto al mondo insegnamento così autorevole, così mirabile.
[823] È da ammirare, inoltre, la fecondità della donna sterile. Sterile, ripeto, e arida questa Religione poverella, perché ben lontana dai terreni umidi. Sterile davvero, perché non miete, non ammassa nei granai, non porta sulla strada del Signore una bisaccia ricolma. E tuttavia, contro ogni speranza, questo santo credette nella speranza che sarebbe diventato erede del mondo e non considerò privo di virilità il suo corpo né sterile il seno di Sara, certo che la divina potenza poteva generare da essa il popolo ebreo.
Questa Religione infatti non si sostiene con cantine ricolme, dispense abbondantemente fornite, amplissimi poderi, ma dalla stessa povertà per la quale si rende degna del cielo, viene meravigliosamente alimentata nel mondo. O debolezza di Dio, più forte dell’umana fortezza, che porta gloria alla nostra croce e somministra abbondanza alla povertà!
[824] Abbiamo infine contemplato questa vigna che, cresciuta in
pochissimo tempo, ha esteso da mare a mare i suoi tralci fruttiferi.
Da ogni parte sono accorse moltitudini di uomini. Si riversarono a frotte e quasi d’un tratto si radunarono le pietre vive per la perfetta struttura di questo meraviglioso tempio. E non soltanto la vediamo in breve tempo moltiplicata nel numero dei figli, ma anche glorificata, poiché parecchi di quelli che ha generato, sappiamo che hanno conseguito la palma del martirio, e veneriamo nell’albo dei santi molti di essi, a motivo della perfetta pratica della virtù. Ma, detto questo, volgiamo
ormai il discorso al capo di tutti costoro; di lui ora intendiamo trattare.
Il miracolo delle stimmate e la maniera in cui il Serafino gli apparve
[825] L’uomo nuovo Francesco si rese famoso per un nuovo e stupendo miracolo, quando apparve insignito di un singolare privilegio, mai concesso nei secoli precedenti, quando cioè fu decorato delle sacre stimmate e reso somigliante in questo corpo mortale al corpo del Crocifisso. Qualunque cosa si possa umanamente dire di lui sara` sempre inferiore alla lode di cui è degno. Non c’è da chiedersi la ragione di tanto evento, perché fu cosa miracolosa, né da ricercare altro esempio, perché unico. Tutto lo zelo dell’uomo di Dio, sia verso gli altri che nel segreto della sua vita interiore, era centrato attorno alla croce del Signore e, fin dal primo istante in cui cominciò a militare sotto il Crocifisso, diversi misteri della croce risplendettero attorno a lui.
[826] Quando infatti, all’inizio della sua conversione, aveva deciso di abbandonare ogni vanità di questa vita, Cristo dalla croce gli parlò mentre era intento a pregare; e dalla bocca della stessa immagine scendono a lui queste parole: «Va’, Francesco, e ripara la mia casa che, come vedi, va tutta in rovina». Da allora gli fu impresso nel cuore, a tratti profondi, il ricordo della passione del Signore, e, attuata in pieno la sua conversione interiore, la sua anima cominciò a struggersi per le parole del Diletto.
Proprio perché si era racchiuso nella stessa croce, indossò anche un abito di penitenza fatto a forma di croce. Se quell’abito, in quanto lo rendeva più emulo della povertà , era molto conveniente al suo proposito, tuttavia in esso il santo testimoniò soprattutto il mistero della croce perché, come la sua mente si era rivestita del Signore crocifisso, così tutto il suo corpo si rivestiva esteriormente della croce di Cristo, e, nel segno con il quale Dio aveva debellato le potestà ribelli, in quello stesso poteva militare al servizio di Dio il suo esercito.
[827] Vide infatti frate Silvestro, uno dei suoi primi frati e uomo d’ogni virtù, uscire dalla sua bocca una croce dorata che abbracciava mirabilmente con l’estensione delle sue braccia tutto l’universo.
È stato scritto e provato da sicura fonte come quel frate Monaldo, famoso per i suoi costumi e le opere di pietà, vide con gli occhi del corpo il beato Francesco crocifisso, mentre il beato Antonio predicava della croce. Era usanza imposta con pio mandato ai primi figli che, ovunque scorgessero un’immagine della croce, manifestassero con un segno la dovuta riverenza.
[828] Familiare gli era la lettera Tau, fra le altre lettere, con la quale soltanto firmava i biglietti e decorava le pareti delle celle. Infatti anche l’uomo di Dio, Pacifico, contemplatore di celesti visioni, scorse con gli occhi della carne, sulla fronte del beato padre, una grande lettera Tau che risplendeva di aureo fulgore. Per convincimento razionale e per fede cattolica appare giusto che chi era così preso da ammirabile amore della
croce, sia divenuto anche mirabile per causa della croce. Nulla pertanto è più veramente consono a lui quanto ciò che si predica delle stimmate della croce.
[829] Or ecco come avvenne l’apparizione. Due anni prima di rendere lo spirito al cielo, nell’eremo detto la Verna, in Toscana, ove nel ritiro della devota contemplazione ormai volgeva tutto se stesso verso la gloria celeste, vide in visione sopra di sé un Serafino che aveva sei ali, con le mani e i piedi inchiodati alla croce. Due ali erano poste sul suo capo, due erano distese come per il volo, due infine coprivano interamente il corpo. A questa visione si meravigliò profondamente, ma non comprendendo che cosa essa significasse per lui, fu pervaso nel cuore da gioia mista a dolore. Si rallegrava per le manifestazioni di grazia con le quali il Serafino lo guardava, ma nel medesimo tempo lo affliggeva
l’affissione alla croce. Cercò subito di comprendere che cosa potesse significare tale visione e il suo spirito si tendeva ansioso alla ricerca di una spiegazione. Mentre però, cercando fuori di sé, l’intelletto gli venne meno, subito nella sua stessa persona gli si manifestò il significato.
D’un tratto cominciarono infatti ad apparire nelle sue mani e nei piedi le ferite dei chiodi, nella stessa maniera nella quale poco prima le
aveva viste sopra di sé nell’uomo crocifisso. Le sue mani e i suoi piedi apparivano trafitti nel centro dai chiodi, con le teste dei chiodi sporgenti nel palmo delle mani e sul dorso dei piedi, mentre le loro punte uscivano dall’altra parte. Le teste dei chiodi nelle mani e nei piedi erano rotonde e nere, le loro punte erano lunghe e ribattute in modo che sorgendo dalla stessa carne sporgevano dalla carne. Anche il
fianco destro, come trafitto da una lancia, era segnato da una rossa cicatrice che, emettendo spesso sangue, inzuppava di quel sacro sangue la tunica e la veste.
Infatti l’uomo di Dio Rufino, che era di purezza angelica, mentre una volta con filiale affetto massaggiava il corpo del santo padre, sfuggendogli la mano, toccò sensibilmente quella ferita. Per questo il servo di Dio soffrì non poco e, allontanando da sé la mano, pregò gemendo che il Signore gli perdonasse.
[830] Due anni dopo egli passò serenamente dalla valle del pianto alla patria beata. Quando la mirabile notizia giunse alle orecchie degli uomini, ci fu gran concorso di popolo, che lodava e glorificava il nome di Dio. Accorsero a frotte tutti i cittadini di Assisi e della regione, desiderosi di vedere il nuovo miracolo che Dio aveva operato in questo mondo. La straordinarietà del miracolo mutava il pianto in giubilo e rapiva gli occhi del corpo in stupore ed estasi. Contemplavano dunque il beato corpo divenuto prezioso per le stimmate di Cristo, nelle mani e nei piedi vedevano non già i fori dei chiodi, ma gli stessi chiodi formati per divina virtù dalla sua stessa carne, anzi innati nella sua stessa carne, tanto che, premuti da qualsiasi parte, subito reagivano come nervi tutti d’un pezzo dalla parte opposta. Contemplavano anche il fianco rosso di sangue.
[831] Abbiamo proprio visto queste cose che narriamo, con le mani con cui scriviamo le abbiamo toccate, e ciò che testimoniamo con le labbra l’abbiamo visto con occhi commossi, confermando per ogni tempo ciò che una volta sola abbiamo giurato toccando i sacri oggetti. Molti frati con noi, mentre viveva il santo, videro la stessa cosa; alla sua morte poi oltre cinquanta frati, con innumerevoli laici, l’hanno venerato. Non vi sia alcuna incertezza, nessun dubbio sorga sul dono di questa eterna bontà! E voglia Dio che per tale serafico amore molte membra aderiscano al capo, Cristo, e che in tal guerra si trovino degne di tale armatura, e che nel Regno siano elevate a simile ordine! Chi mai, sano d’intelletto, non direbbe che ciò appartiene alla gloria di Cristo? Ma basti, comunque, la pena già inflitta agli increduli a ripagare gli indevoti e a rendere
gli stessi devoti più certi.
[832] Presso Potenza, città del regno di Puglia, vi era un chierico di nome Ruggero, uomo di onore e canonico della Chiesa madre. Costui, straziato da lunga infermità, un giorno entrò a pregare per la sua salute in una chiesa, in cui vi era dipinta l’effigie del beato Francesco, rappresentante le gloriose stimmate. E avvicinandosi per pregare presso l’immagine, si inginocchia molto devotamente. Tuttavia, fissando le stimmate del santo, volge i pensieri a cose vane e non respinge con la ragione l’aculeo del dubbio che in lui sorgeva. Infatti, illuso dall’antico nemico, con il cuore turbato, cominciò a dire fra sé: «Sarà proprio vero che questo santo sia stato glorificato con tale miracolo, o piuttosto non fu una pia illusione dei suoi? Fu una falsa scoperta e forse un inganno inventato dai frati. Tale prodigio sarebbe superiore a ogni umano sentire e sarebbe lontano da ogni giudizio della ragione». O stoltezza di uomo! Dovevi piuttosto venerare con tanta maggiore umiltà quel miracolo, quanto più era meno inteso da te! Era tuo dovere sapere, se eri ragionevole, che è cosa facilissima per Iddio rinnovare di continuo il mondo con nuovi miracoli, e operare sempre in noi per la sua gloria cose che non ha operato in altri. Ebbene? Mentre si disperde in tali pensieri, viene colpito da Dio con una dura piaga, perché impari dalla sofferenza a non bestemmiare. Viene colpito sulla palma della mano sinistra, poiché era mancino, mentre ode un sibilo come di freccia scoccata dalla balestra. Subito dopo, stupito sia dalla ferita che dal sibilo, si toglie il guanto che portava. Dove non c’era prima alcuna ferita, scopre ora nel mezzo della mano una piaga, come di un colpo di freccia, che gli procurava tanto bruciore che gli sembrava di venir meno dal dolore. Mirabile a dirsi! Nessun segno di rottura appariva sul guanto, perché alla segreta ferita del cuore rispondesse anche il dolore di una piaga segreta.
Si lamenta quindi per due giorni e urla esacerbato dal dolore acutissimo, rivelando a tutti il mistero del suo incredulo cuore; confessa di credere che in san Francesco vi furono davvero le sacre stimmate e giura assicurando che era scomparso in lui ogni fantasma di dubbio. Supplica quindi il santo di Dio, di essere aiutato per merito delle sacre stimmate, e pregando versa molte lacrime. Nuovo miracolo: svanita l’incredulità, la guarigione del corpo segue alla guarigione dello spirito. Sparisce ogni sofferenza, si calma il bruciore, scompare ogni segno della ferita. Quell’uomo diviene umile davanti a Dio, devoto al santo e legato all’Ordine dei frati da perenne amicizia. Questo miracolo fu sottoscritto con giuramento e controfirmato dal vescovo locale. Mirabile benedetta potenza di Dio, che nella città di Potenza fece cose magnifiche!
[833] È costume delle nobili matrone romane, sia vedove che sposate, soprattutto di quelle a cui la ricchezza consente il privilegio della generosità e a cui Cristo infonde il suo amore, di avere nelle proprie case delle camerette o un rifugio idoneo alla preghiera, in cui conservano qualche immagine dipinta e l’effigie di quel santo che venerano in modo particolare. Orbene, una signora nobile per purezza di costumi e per fama di antenati, aveva scelto san Francesco come suo protettore. Teneva la sua immagine dipinta nella cameretta appartata, dove in segreto pregava il Padre. Un giorno, mentre pregava devotamente
e con grande attenzione cercava i santi segni, non vedendoli raffigurati, si meravigliò e se ne addolorò. Ma non c’era nessuna ragione di meravigliarsi, dal momento che non c’era nel dipinto ciò che il pittore aveva tralasciato di raffigurare. Per più giorni cela in cuor suo il fatto, né lo dice ad alcuno, pur guardando frequentemente l’immagine e sempre con dolore. Ed ecco che un giorno, d’improvviso, quei meravigliosi
segni apparvero sulle mani, come di solito appaiono dipinti nelle altre immagini, poiché la potenza divina aveva supplito a ciò che era stato dimenticato dall’umana arte.
Tremante, la donna chiama subito a sé la figlia, che la seguiva nel suo santo proposito, e, indicandole ciò che era accaduto, diligentemente le domanda se fino ad allora avesse visto l’immagine senza le stimmate. La fanciulla asserisce e giura che prima l’immagine era senza le stimmate e che ora invece appariva chiaramente con le stimmate. Ma proprio perché la mente umana spesso si confonde e cade, rimettendo in dubbio la verità, subentra di nuovo nel cuore della donna un dubbio ansioso, che fin dal principio così fosse stata l’immagine. Ma la potenza di Dio, perché non venga misconosciuto il primo miracolo, ne aggiunge un secondo. Sparirono infatti immediatamente quei segni e l’immagine rimase priva di quegli ornamenti, in modo che attraverso un altro prodigio fosse reso evidente quello precedente. Io stesso ho visto quella sposa piena di ogni virtù; ho visto, ripeto, in abito secolare un’anima consacrata a Dio.
[834] Sin dalla nascita, la ragione umana si lascia così irretire da sensazioni grossolane e da fallaci fantasie che, sopraffatta da un’instabile immaginazione, è costretta qualche volta a mettere in dubbio ciò che si deve credere. Perciò non soltanto andiamo soggetti a dubbi sui fatti meravigliosi dei santi, ma spesse volte la stessa fede nelle cose della salvezza diviene oggetto di molte obiezioni.
Un frate dell’Ordine dei minori, predicatore per ufficio e di integra vita, era fermamente persuaso del miracolo delle sacre stimmate; ma un giorno egli venne preso dal tormento del dubbio intorno al miracolo del santo. Puoi immaginare la guerra sorta nel suo animo, mentre la ragione da un lato difende la verità e dall’altro la fantasia suggerisce sempre il contrario. La ragione, sostenuta da molti particolari, ammette che è
proprio così come si dice e, in mancanza di ulteriori argomenti, si appoggia alla verità proposta dalla santa Chiesa. Congiurano dall’altra parte contro la credibilità del miracolo le ombre dei sensi, poiché sembra essere cosa totalmente contraria alle leggi della natura e, oltre a ciò, mai verificatasi nei secoli precedenti. Una sera, affaticato da tale ansietà, entra in cella, ormai aggrappato alla debolezza della ragione e quanto mai scosso dalla protervia del dubbio. Ora, mentre dormiva, gli apparve san Francesco, con i piedi infangati, dal sembiante
umilmente duro e pazientemente sdegnato. «Perché questo contrasto e queste incertezze in te? – esclamò –. Perché questi dubbi volgari? Guarda le mie mani e i miei piedi». Ma egli poteva vedere le mani trafitte, non vedeva pero` le stimmate dei piedi infangati. «Togli – aggiunse il santo – il fango dai miei piedi e vedi i posti dei chiodi!». Prendendo quegli i piedi del santo, gli sembro` di togliere il fango e di toccar con le mani i posti dei chiodi. Subito dopo, svegliandosi, si sciolse tutto in lacrime e purificò con una pubblica confessione i sentimenti che in qualche modo gli avevano inzaccherato l’animo.
[835] Perché non si ritenga che quelle sacre stimmate dell’invitto soldato di Cristo non avessero un eccezionale potere, oltre a quello di essere segno di un dono speciale e privilegio di supremo amore – ciò che costituisce la meraviglia di tutto il mondo –, e quanto siano armi potenti presso Dio quei sacri segni, lo si può vedere attraverso un fatto avvenuto in Spagna, nel regno di Castiglia, a motivo della novità di un più evidente miracolo.
Due uomini erano ferocemente divisi da una vecchia lite; essi non avevano tregua nel loro animo esacerbato; e non poteva esserci né una pace durevole né un rimedio temporaneo del loro furore se non quando l’uno o l’altro avesse crudelmente ucciso il nemico. Ambedue armati e spalleggiati dai compagni si tendevano l’un l’altro frequenti insidie, perché non si poteva compiere in pubblico un delitto. Una volta sul tardi, a crepuscolo ormai inoltrato, accadde che un uomo di chiara fama e onestà dovesse passare per quella via, dove l’uno aveva preparato un’insidia mortale per l’altro. Costui si affrettava, come d’abitudine, per andare a pregare dopo l’ora di compieta alla chiesa dei frati, essendo quanto mai devoto del beato Francesco; tutto a un tratto i figli delle tenebre si gettarono sul figlio della luce avendolo scambiato per il loro avversario a lungo ricercato a morte. Avendolo trafitto mortalmente da ogni parte, lo lasciarono mezzo morto. Alla fine colui che gli era nemico più crudele gli conficcò profondamente la spada nel collo e, non potendola ritrarre, la lasciò infissa nella ferita.
Si accorse da ogni parte, e mentre le grida salivano fino al cielo, tutto il vicinato piangeva la morte dell’innocente. Poiché c’era ancora un alito di vita in quell’uomo, i medici decisero di non estrarre la spada dalla gola. Forse essi così agivano nella speranza di una confessione, affinché la vittima almeno con un segno rivelasse qualche cosa. Lavorarono quindi tutta la notte fino all’alba a tergere il sangue e a curare le ferite inflitte dai molti e profondi colpi; non ottenendo nessun risultato, smisero di curarlo. Stavano attorno al letto con i medici anche i frati minori, presi da immenso dolore, in attesa della fine dell’amico. Ed ecco la campana dei frati chiamò al mattutino. Al suono della campana, la moglie corse gemendo vicino al letto: «Mio signore, esclama, alzati presto, vai al mattutino, perché la campana ti chiama!». Subito colui che si credeva sul punto di morire, dopo aver emesso un mormorio confuso dal petto, fece a fatica qualche cenno. E, levando la mano verso la spada infitta nella gola, pareva indicare a qualcuno di estrarla. Cosa davvero sorprendente! Improvvisamente la spada fu come proiettata via dalla ferita e scagliata come dalla mano di un uomo robustissimo sino alla porta di casa, sotto gli occhi di tutti. Quell’uomo si alzò e perfettamente guarito, come se si fosse risvegliato dal sonno, prese a raccontare le meraviglie del Signore.
Sì grande stupore prese il cuore di tutti che, storditi, credevano che il fatto fosse frutto della fantasia. A questo punto l’uomo guarito esclamò: «Non temete, non crediate illusione ciò che vedete! Giacché san Francesco, cui sempre sono stato devoto, è appena uscito di qui e mi ha sanato completamente da ogni piaga. A ogni mia ferita ha sovrapposto quelle sue sacratissime stimmate; con la loro dolcezza ha alleviato le mie piaghe; come vedete, al loro contatto ogni ferita si è mirabilmente rimarginata. Mentre infatti udivate i rantoli del mio petto, sembrava che il santissimo padre, dopo aver dolcemente rimarginato tutte le ferite, volesse allontanarsi lasciando la spada nella gola. Non riuscendo a parlare, gli facevo debolmente cenno con la mano perché estraesse la spada, ormai sotto il pericolo della morte imminente. Afferrandola subito, come tutti avete potuto constatare, la scagliò via con forza. E così come prima aveva fatto, toccando e lenendo con le sacre stimmate la gola ferita, la risanò completamente, senza che rimanesse alcun segno». Al racconto di tali fatti nessuno potrà non stupirsi. Chi dunque potrà mai dubitare che quanto è detto delle stimmate non sia opera divina?
Il potere che ebbe sulle creature insensibili, e specialmente sul fuoco
[836] Nel tempo in cui era afflitto dalla malattia degli occhi, i confratelli persuasero l’uomo di Dio ad accettare le cure; perciò venne chiamato al luogo dei frati un chirurgo. Costui portò con sé lo strumento di ferro per la cauterizzazione e ordinò di metterlo sul fuoco, fino a che non fosse reso incandescente. Al che il beato padre, confortando il proprio corpo scosso dal timore, così si rivolse al fuoco: «Fratello mio fuoco, l’Altissimo ti ha creato per emulare in bellezza le altre cose, potente, bello e utile. Siimi favorevole in questo momento, siimi amico, poiché già ti ho amato nel Signore! Prego il grande Iddio, che ti ha creato, che moderi il tuo calore in modo che ora io possa dolcemente sopportarlo». Terminata l’orazione, benedisse con un segno di croce il fuoco e quindi, pieno di coraggio, attese. Mentre il ferro rovente e scintillante veniva
afferrato dal chirurgo, i frati fuggirono vinti da umana paura e il santo lieto e senza esitazione si sottopose al ferro. Il ferro crepitando penetrava nella morbida carne e venne fatta la cauterizzazione a tratti dall’orecchio al sopracciglio. Quanto quel fuoco abbia provocato dolore, ne e` testimonianza la parola di colui che ne ebbe esperienza. Infatti, ritornati i frati che erano fuggiti, il padre sorridendo disse: «Paurosi e deboli di cuore, perché mai siete fuggiti? In verità, vi dico, non ho sentito né il calore del fuoco né alcun dolore della carne». E rivolto al medico: «Se la carne non è ben cotta, applica di nuovo il ferro!». Il medico, che conosceva ben altre conseguenze di simili operazioni, magnificò tale miracolo esclamando: «Dico a voi, fratelli, ho visto oggi cose mirabili». Era forse tornato alla primitiva innocenza colui al volere del quale si arrendevano ammansiti gli esseri indocili.
[837] Il beato Francesco, desiderando qualche volta andare in un eremo per attendere più liberamente alla contemplazione, poiché era molto debole, ottenne da un povero uomo un asino da cavalcare. Costui, mentre saliva nella calura estiva per i viottoli montagnosi, seguendo l’uomo di Dio, è preso dalla fatica del lungo cammino su una strada troppo aspra e lunga, e, prima di arrivare alla meta, viene meno dalla sete. Si mette dunque a supplicare con insistenza il santo perché abbia pietà di lui, dicendo che sarebbe morto se non avesse bevuto qualche sorso d’acqua. Il santo di Dio, che sempre era compassionevole verso gli afflitti, senza indugio discese dall’asino e, piegate a terra le ginocchia, alzò le palme verso il cielo, non cessando di pregare finché si sentì esaudito. «Affrettati – disse al contadino – e troverai acqua viva, che in questo istante Cristo misericordioso ha fatto sgorgare dalla pietra». Stupenda degnazione di Dio, che si china verso i suoi servi così facilmente!
Bevve il contadino l’acqua sgorgata dalla pietra per virtù della preghiera del santo e gustò una bevanda tratta dalla durissima roccia. Polla d’acqua in quel luogo non c’era mai stata, né in seguito si è mai potuta ritrovare, come dimostrano le ricerche diligentemente fatte.
[838] Gagliano è un paese popoloso e illustre in diocesi di Sulmona. In esso viveva una donna di nome Maria che, giunta alla conversione attraverso le difficili vie del mondo, si era dedicata totalmente al servizio di san Francesco. Era salita un giorno su un monte, riarso per la totale mancanza d’acqua, con l’intenzione di potare gli aceri verdeggianti; aveva dimenticato di portare con sé l’acqua e, per il calore eccessivo, cominciò a venir meno per l’arsura della sete. Non potendo ormai far nulla e giacendo per terra esaurita, cominciò a invocare il suo patrono san Francesco. Affaticata si assopì. Ed ecco sopraggiungere san Francesco, che la chiamò con il suo nome: «Alzati e bevi l’acqua che a te a molti altri viene offerta quale dono di Dio». Sbadigliò la donna a tale voce e vinta dal sonno tornò a riposare. Chiamata ancora una volta, ancor molto stanca, rimase a terra sdraiata. La terza volta però, confortata al comando del santo, si alzò. E afferrando una felce vicina la estrasse dal terreno. Avendo allora scorto che la sua radice era tutta intrisa d’acqua, con le dita e con un piccolo ramoscello comincio` a scavare tutt’attorno. Subito la fossa si riempì d’acqua e la piccola goccia crebbe fino a divenire fonte. Bevve la donna e, dissetata, si lavò gli occhi che, gravemente indeboliti da una lunga malattia, non potevano vedere nulla con chiarezza. Si illuminarono i suoi occhi e, sparita la
rugosa vecchiezza, si riempirono come di nuova luce. La donna si affretto` verso casa, per annunciare a tutti tale stupendo miracolo a gloria di san Francesco. Si diffuse la notizia del miracolo in altre regioni, giungendo alle orecchie di tutti. Accorsero da ogni parte molti colpiti da varie malattie, i quali, fatta anzitutto la confessione per la salvezza dell’anima, vennero qui liberati dalle loro infermità. Infatti i ciechi riacquistarono la vista, gli zoppi ripresero a camminare, anche gli obesi divennero più snelli, e ad ogni infermità viene offerto il giusto rimedio. Ancora oggi dalla fonte prodigiosa l’acqua continua a sgorgare; è stato qui costruito un oratorio in onore di san Francesco.
[839] Nel periodo in cui era presso l’eremo di Sant’Urbano, il beato Francesco, gravemente ammalato, con labbra aride, domandò un po’ di vino; gli risposero che non ce n’era. Chiese allora che gli portassero dell’acqua e quando gliela ebbero portata la benedisse con un segno di croce. Subito l’acqua perse il proprio sapore e ne acquisto` un altro. Diventò ottimo
vino quella che prima era acqua pura, e ciò che non poté la povertà, lo provvide la santità. Dopo averlo bevuto, quell’uomo di Dio si ristabilì molto in fretta e come la miracolosa conversione dell’acqua in vino fu la causa della guarigione, così la miracolosa guarigione testimoniava quella conversione.
[840] Nella provincia di Rieti era scoppiata una pestilenza molto grave che contagiava i bovini, tanto che solo qualche bue poteva sopravvivere. A un uomo timorato di Dio, di notte, attraverso un sogno, venne fatto sapere di recarsi con sollecitudine in un eremo di frati per prendere l’acqua con cui si lavavano le mani e i piedi del beato Francesco, che allora là si trovava, per aspergere con essa tutti i bovini. Alla mattina, levatosi quell’uomo ben ansioso di ottenere il beneficio, venne al luogo indicato e, all’insaputa del santo, poté ottenere dagli altri frati quell’acqua che poi asperse su tutti i bovini, come gli era stato comandato. Da quel momento cessò, per grazia di Dio, il pestilenziale contagio, né più riapparve in quella zona.
[841] In regioni diverse molte genti offrivano molto spesso a san Francesco con fervida devozione pane e altri cibi perché li benedicesse. Conservandosi questi per lungo tempo senza corrompersi, grazie all’intervento divino, se presi come cibo risanavano i corpi affetti da malattia. È stato anche provato, infatti, che per loro virtù furono allontanate violente tempeste di grandine e tuoni. Affermano alcuni di aver constatato che, per virtù del cordone che egli cingeva e delle pezzuole scucite dai suoi abiti, sono stati scacciati i morbi e fugate le febbri, recuperando così la tanto desiderata salute.
[842] Celebrando il santo, il giorno della Natività del Signore, la memoria della magiatoia del bambino di Betlemme e rievocando misticamente tutti i particolari dell’ambiente nel quale nacque il bambino Gesù, molti prodigi si manifestarono per intervento divino. Fra questi vi è quello del fieno sottratto a quella mangiatoia, che divenne rimedio alle infermità di molti e che fu utile particolarmente alle partorienti in difficoltà e a tutti gli animali contagiati da epidemie.
Avendo narrato tutto ciò delle creature insensibili, aggiungiamo ora qualche cosa sull’obbedienza prestata dalle creature sensibili.
Il potere che ebbe sulle creature sensibili
[843] Le stesse creature si sentivano spinte a rispondere con amore a san Francesco e a ricambiare con gratitudine quanto era loro dato.
Una volta, facendo viaggio attraverso la valle Spoletana, nelle vicinanze di Bevagna, arrivò in un luogo ove si era radunata una grandissima quantità di uccelli di varie specie. Avendoli scorti, il santo di Dio per il particolare amore del Creatore, con cui amava tutte le creature, accorse sollecitamente in quel luogo, salutandoli nel modo consueto, come se fossero dotati di ragione. Poiché gli uccelli non volavano via, egli si avvicinò e, andando e venendo in mezzo a loro, toccava con il lembo della sua tonaca il loro capo e il loro corpo. Pieno di gioia e di ammirazione, li invitò ad ascoltare volentieri la parola di Dio e così disse: «Fratelli miei uccelli! Dovete lodare molto il vostro Creatore e sempre amarlo perché vi ha rivestito di piume e vi ha donato le penne per volare. Infatti tra tutte le creature vi ha fatti liberi, donandovi la trasparenza dell’aria. Voi non seminate né mietete, eppure egli vi mantiene senza alcun vostro sforzo!».
A tali parole gli uccelli, facendo festa, cominciarono ad allungare il collo, spalancare le ali, aprire il becco, fissandolo attentamente. Né si allontanarono da là finché, fatto un segno di croce, non diede loro il permesso e la benedizione.
Tornato dai frati, cominciò ad accusarsi di negligenza, perché prima non aveva mai predicato agli uccelli. Perciò da quel giorno esortava gli
uccelli, gli animali, e anche le creature insensibili, alla lode e all’amore verso il Creatore.
[844] Si avvicinò una volta a un paese di nome Alviano, per predicarvi. Radunato il popolo e chiesto il silenzio, quasi non poteva essere udito per il garrire delle molte rondini che nidificavano in quel luogo. Mentre tutti lo ascoltavano, si rivolse ad esse dicendo: «Sorelle mie rondini, ormai è ora che parli anch’io, giacché voi fino ad ora avete detto abbastanza! Ascoltate la parola di Dio standovene zitte, finché il discorso del Signore sarà terminato». E quelle, come fossero dotate di ragione, subito tacquero, né si mossero dal loro luogo finché tutta la predica fu finita. Tutti coloro che assistettero, pieni di stupore, dettero gloria a Dio.
[845] Nella città di Parma, uno studente era talmente infastidito dall’insistente garrire di una rondine, da non poter in alcun modo meditare. Costui, piuttosto eccitato, cominciò a dire: «Questa rondine è stata una di quelle che, come si legge, una volta non permetteva a san Francesco di predicare, finché egli non le impose il silenzio». E rivolto alla rondine esclamò: «In nome di san Francesco ti ordino che tu permetta di essere da me presa». Essa tosto volò tra le sue mani. Stupefatto, lo studente le restituì la libertà e in seguito non sentì più il suo garrire.
[846] Mentre un giorno il beato Francesco attraversava, su di una piccola barca, il lago reatino di diretto verso l’eremo di Greccio, un pescatore gli offrì un uccello fluviale, con cui rallegrarsi davanti al Signore. Il beato padre lo prese con gioia e lo invitò con dolcezza a volare via liberamente. Esso non voleva andarsene e si rannicchiava come in un nido nelle sue mani; il santo allora, alzati gli occhi al cielo, rimase a lungo in preghiera. Dopo una lunga pausa, come ritornato in sé da un’estasi, comandò dolcemente all’uccello di ritornare senza timore alla libertà di prima. Ricevuto dunque il permesso con la sua benedizione, lietamente, con un battito d’ali, l’uccello volò via liberamente.
[847] Un’altra volta, sullo stesso lago, viaggiando su di una barchetta, giunse al porto dove gli fu offerto un grosso pesce ancor vivo. Chiamandolo egli con il nome di fratello, secondo la sua usanza, lo rimise in acqua vicino alla barca. Ma il pesce giocherellava in acqua presso il santo, che con gioia lodava Cristo Signore. Il pesce non si allontanò da quel posto, fino a che non gli fu ordinato dal santo.
[848] Mentre il beato Francesco era in un eremo, come al solito lontano dagli uomini e dal loro parlare, un falco che aveva il nido in quel luogo si legò a lui con grande patto d’amicizia. Infatti di notte, quando il santo era solito alzarsi per i divini uffici, il falco lo anticipava sempre con il suo canto e schiamazzo. La cosa era molto gradita al santo, poiché con
tanta sollecitudine lo scuoteva da ogni indugio. Quando però il santo più del solito era disturbato da qualche malessere, il falco si tratteneva e non cominciava così presto le sue veglie. Come istruito da Dio, verso l’alba suonava la campana della sua voce con tocco leggero. Nessuna meraviglia, dunque, se anche tutte le altre creature venerano un così grande amante del Creatore.
[849] Un nobile, del contado di Siena, mandò al beato Francesco infermo un fagiano. Egli lo ricevette con gratitudine, non per il desiderio di mangiarlo, ma secondo l’abitudine per la quale si rallegrava di tali cose per amore del Creatore, e disse al fagiano: «Sia lodato il nostro Creatore, fratello fagiano!». E ai frati: «Proviamo ora se frate fagiano voglia stare con noi, oppure andarsene nei luoghi abituali e a lui più confacenti». Allora un frate, per ordine del santo, portando l’uccello lo pose lontano in un vigneto. Esso subito, con volo rapido, ritornò alla cella del padre, che ordinò ancora di portarlo più lontano. L’uccello con estrema velocità tornò alla porta della cella e, come facendo violenza, entrò di sotto le tonache dei frati che erano all’ingresso. Allora il santo ordinò di nutrirlo con cura, accarezzandolo e parlandogli dolcemente. Un medico, assai devoto al santo di Dio, vista la cosa, chiese l’uccello ai frati non per mangiarlo, ma per allevarlo in ossequio
al santo. Lo porto` con se´ a casa, ma il fagiano, quasi offeso per essere stato allontanato dal santo, finché rimase lontano dalla sua presenza non volle mangiare nulla. Stupefatto, il medico riportò con premura il fagiano al santo e narro` dettagliatamente tutto ciò che era accaduto. Il fagiano, posto in terra, appena scorse il padre suo, lasciò ogni tristezza e cominciò lietamente a mangiare.
[850] Accanto alla cella del santo di Dio, presso la Porziuncola, una cicala, che stava di solito su un fico, cantava frequentemente con la consueta dolcezza. Il beato padre una volta, stendendo la mano, la chiamò con dolcezza verso di sé: «Sorella mia cicala, vieni da me!». Ed essa, come dotata di ragione, subito si pose sulla sua mano. Ed egli rivolto ad essa: «Canta, sorella mia cicala, e loda con la tua letizia il Signore creatore».
Essa, obbedendo senza indugio, cominciò a cantare senza tregua finché l’uomo di Dio, unendo la sua lode ai canti di lei, le permise di tornarsene nel suo solito posto, nel quale essa rimase ininterrottamente come fosse legata per otto giorni. E il santo, ogni volta che usciva dalla cella, le ordinava, accarezzandola con le mani, di cantare ed essa era sempre sollecita a obbedire alle sue richieste. E il santo disse ai compagni: «Diamo ormai libertà a nostra sorella cicala, che fino ad ora ci ha rallegrati abbastanza, in modo che la nostra carne non si glori
vanamente per tal fatto». E subito essa, da lui licenziata, si allontanò senza farsi vedere più. I frati furono molto stupiti di ciò.
[851] Essendo in un luogo povero, il santo beveva in un vaso di coccio. In esso, dopo la sua morte, delle api, con arte meravigliosa, fabbricarono le cellette dei favi, quasi a indicare mirabilmente la divina contemplazione che là aveva gustato.
[852] Presso Greccio fu offerto a san Francesco un leprotto vivo e ancora in forza. Posto di nuovo in libertà poteva fuggire dove voleva; quando il santo lo richiamò a sé, quello agilmente gli saltò sul petto. Il santo, ricevendolo benevolmente e ammonendolo dolcemente di non farsi più prendere, lo benedisse e gli ordinò di tornare nella selva.
[853] Qualcosa di simile accadde di un coniglio, che è un animale molto selvatico, quando il santo dimorava nell’isola del lago di Perugia.
[854] Una volta, facendo viaggio da Siena alla vallata di Spoleto, il santo giunse in un campo dove pascolava un gregge abbastanza grande; egli lo salutò benevolmente, come era solito, e le pecore accorsero tutte da lui e, levando le teste e belando, rispondevano al suo saluto. Il suo vicario notò attentamente ciò che le pecore avevano fatto e seguendo con i compagni a passo più lento, disse agli altri: «Avete visto che cosa le pecore hanno fatto al padre? Veramente – soggiunse – è grande costui che gli animali venerano come un padre e che, pur privi di ragione, riconoscono come amico del loro Creatore».
[855] Le allodole, amiche della luce del giorno e paurose delle ombre del crepuscolo, quella sera in cui san Francesco passò dal mondo a Cristo, pur essendo già iniziato il crepuscolo, si posarono sul tetto della casa e a lungo garrirono roteando attorno. Non sappiamo se abbiano voluto a modo loro dimostrare la gioia o la mestizia, cantando. Esse cantavano un gioioso pianto e una gioia dolorosa, quasi piangessero il lutto dei figli o volessero indicare l’entrata del padre nell’eterna gloria. Le guardie della città, che attentamente custodivano quel luogo, stupite invitarono gli altri all’ammirazione.
La divina clemenza fu sempre pronta a esaudire i desideri di san Francesco
[856] Non soltanto la creatura obbediva al solo cenno di quest’uomo, ma la provvidenza stessa del Creatore condiscendeva ovunque ai suoi desideri. Quella paterna clemenza preveniva i suoi desideri e anticipatamente con sollecitudine accorreva come a colui che si era abbandonato ad essa. Si manifestavano a un tempo il bisogno e la grazia, il desiderio e il soccorso.
Nel sesto anno della sua conversione, ardendo dal desiderio del martirio, volle passare il mare diretto in Siria. Avendo salpato con una nave diretta a quel luogo, per la furia dei venti contrari finì sulla costa della Schiavonia con gli altri naviganti. Vedendosi impedito nella realizzazione del suo grande desiderio, dopo poco pregò alcuni marinai in viaggio per Ancona di condurlo con loro nella traversata. Essi rifiutarono ostinatamente di riceverlo per mancanza di cibo, e il santo di Dio, confidando quanto mai nella bontà del Signore, entrò di soppiatto nella nave con un compagno. Per divina provvidenza si presentò subito un individuo sconosciuto a tutti, che portava con sé il vitto necessario. Chiamato un marinaio timorato di Dio, costui gli disse: «Prendi con te tutto questo e lo darai fedelmente secondo necessità ai poverelli nascosti nella nave». Levatasi in seguito una forte tempesta, per molti giorni i marinai remarono con fatica esaurendo tutte le loro cibarie e rimasero solo quelle del povero Francesco. Ora queste, per divina grazia e potenza, furono moltiplicate sì che, malgrado vi fossero ancora molti giorni di navigazione, soccorsero abbondantemente alla necessità di tutti sino al porto di Ancona. Pertanto i marinai, vedendo che erano stati salvati dal pericolo del mare grazie al servo di Dio Francesco e che avevano ricevuto da lui quanto gli avevano negato, resero grazie a Dio onnipotente, che sempre si mostra mirabile e amabile nei suoi servi.
[857] Di ritorno dalla Spagna, non avendo potuto, secondo il suo desiderio, raggiungere il Marocco, san Francesco si ammalò molto gravemente. Infatti, oppresso dalla miseria e dalla debolezza e cacciato dalla casa per la durezza dell’ospite, per tre giorni perse la parola. Recuperate comunque in qualche modo le forze, camminando per la strada disse a frate Bernardo che avrebbe mangiato un uccello, se mai ne avesse avuto uno. Ed ecco accorrere attraverso un campo un cavaliere con uno squisito uccello. Costui disse al beato Francesco: «Servo di Dio, accetta con piacere ciò che ti manda la divina clemenza ». Accettò con gioia il dono e, comprendendo come Cristo avesse cura di lui, lo benedisse in ogni cosa.
[858] Giacendo infermo nel palazzo del vescovo di Rieti, rivestito di una povera tonaca assai vecchia, il padre dei poveri, disse una volta a uno dei suoi compagni che aveva scelto come suo guardiano: «Vorrei, fratello, che tu, potendolo, mi procurassi del panno per una tonaca». Il frate, udito ciò, stava pensando come trovare il panno tanto necessario e tanto umilmente richiesto. Il mattino seguente, quindi, molto presto si avviò alla porta per andare in città e procurarsi il panno: ed ecco, c’era sulla porta un uomo che intendeva parlargli. Costui disse al frate: «Ricevi, fratello, per amor di Dio del panno per sei tuniche, e tenendone una per te distribuisci le rimanenti per il bene dell’anima mia, come ti parrà». Tutto lieto, il frate torna dal beato Francesco e racconta del dono venuto dal cielo. A lui il padre rispose: «Prendi le tuniche, perché per questo quell’uomo è stato mandato, per soccorrere in tale modo alla mia necessità. Siano dunque rese grazie a Colui che sembra prendersi cura solo di noi».
[859] Mentre il santo uomo stava in un eremo, un medico lo visitava ogni giorno per la cura degli occhi. Un giorno il santo disse ai suoi: «Invitate il medico e dategli da mangiare benissimo». Rispose il guardiano: «Padre, lo diciamo timidamente, ci vergogniamo di invitarlo, tanto siamo poveri in questo momento». Rispose il santo dicendo: «Uomini di poca fede, perché
volete che ve lo ripeta?». Il medico, che era presente, esclamò: «Anch’io, fratelli carissimi, stimerò come una delizia la vostra miseria». Si affrettarono i frati e posero sulla mensa tutta l’abbondanza
della dispensa, cioé un poco di pane, non molto vino e, perché con più abbondanza mangiassero, la cucina procurò anche un po’ di legumi. Intanto la mensa del Signore soccorse la mensa dei suoi servi; si sentì bussare alla porta, accorse un frate ed ecco una donna che offrì un canestro pieno di pane fragrante, di pesci, di pasticcio di gamberi, con sopra grappoli di uva e miele. A tale vista esultò la mensa dei poveri e, riservati i cibi poveri per il domani, s’imbandirono subito quelli prelibati. Allora il medico così parlò, con un sospiro: «Né voi, frati, come dovreste, né noi secolari conosciamo adeguatamente la santità di costui». Sarebbero stati saziati dal cibo, se non lo fossero stati ancor più dal miracolo. Così quell’occhio paterno non guarda mai con disprezzo i suoi, anzi con maggior provvidenza nutre i mendicanti piu` bisognosi.
Donna Jacopa dei Sette Sogli
[860] Jacopa dei Sette Sogli, la cui fama nella città di Roma era pari alla sua santità, aveva meritato il privilegio di un particolare affetto da parte del santo. Non sta a me ripetere, a lode di lei, l’illustre casato, la nobiltà della famiglia, le ampie ricchezze, e infine la meravigliosa perfezione delle sue virtù, la lunga castità vedovile. Essendo dunque il santo ammalato di quella malattia che doveva condurlo, dopo tante sofferenze, con morte beata, al felice compimento della sua vita, pochi
giorni prima di morire, chiese che fosse avvertita a Roma donna Jacopa, perché se voleva vedere colui che già aveva tanto amato come esule in terra e che ora era prossimo al ritorno verso la patria, si affrettasse a venire. Si scrive una lettera, si cerca un messo molto veloce e, trovatolo, si dispose al viaggio. All’improvviso si udì alla porta un calpestio di cavalli, uno strepito di soldati e il rumore di una comitiva. Uno dei confratelli, quello che stava dando istruzioni al messo, si avvicinò alla porta e si trovò alla presenza di colei che invece cercava lontano.
Stupito, si avvicinò in fretta al santo e pieno di gioia disse: «Padre, ti annunzio una buona novella». Il santo, prevenendolo, gli rispose: «Benedetto Dio, che ha condotto a noi donna Jacopa, fratello nostro! Aprite le porte – esclama – e fatela entrare, perché per fratello Giacoma non c’è da osservare il decreto relativo alle donne!».
Ci fu tra gli illustri ospiti una grande esultanza, si pianse di gioia e di commozione. In più, perché nulla mancasse al miracolo, si scopre che la santa donna aveva portato tutto ciò che riguardava le esequie come conteneva la lettera antecedentemente scritta. Infatti aveva recato un panno di colore cenerino, con cui coprire il corpicciolo del morente, parecchi ceri, una sindone per il volto, un cuscino per il capo e un
certo piatto che il santo aveva desiderato; insomma tutto ciò che l’anima di questo uomo aveva richiesto, Dio l’aveva suggerito a lei.
[861] Continuerò il racconto di questo pellegrinaggio – perché tale è stato veramente – per non lasciare senza consolazione la nobile pellegrina. La moltitudine e soprattutto il devoto popolo della città attendeva ormai prossimo il passaggio del santo dalla morte alla vita. Ma alla venuta della pellegrina romana il santo si era un poco ripreso e si pensava allora che sarebbe vissuto ancora. Perciò quella signora pensò di licenziare il resto della comitiva, per rimanere lei sola con i figli e
pochi scudieri. Ad essa però il santo disse: «Non farlo, poiché io partirò sabato e tu te ne andrai la domenica con tutti». E così accadde: all’ora predetta entrò nella Chiesa trionfante colui che aveva combattuto così eroicamente in quella militante. Tralascio qui il concorso delle folle, i cori inneggianti, i rintocchi solenni delle campane, le copiose lacrime; tralascio i pianti dei figli, i singhiozzi degli amici, i sospiri dei compagni. Mi limiterò a narrare come la pellegrina, privata del conforto del padre, fu consolata.
[862] Pertanto essa, tutta madida di lacrime, tratta in disparte, viene di nascosto accompagnata presso la salma, e, ponendole tra le braccia il corpo dell’amico, il vicario esclama: «Ecco, stringi da morto colui che hai amato da vivo!». Ed essa, versando cocenti lacrime sopra quel corpo, raddoppia flebili richiami e singhiozzi, e ripetendo affettuosi abbracci e baci, solleva il velo per vederlo scopertamente. Ebbene? Contempla quel prezioso vaso, in cui era stato nascosto un tesoro più prezioso, adorno di cinque perle. Ammira quelle cesellature, degne dell’ammirazione di tutto il mondo, che la mano dell’Onnipotente aveva scolpito, e così d’un tratto, piena di insolita letizia, si rianima tutta alla vista dell’amico morto. Subito suggerisce che non si debba dissimulare e tener nascosto
più a lungo un così inaudito miracolo, ma con una risoluzione molto saggia lo si mostri agli occhi di tutti. Accorrono perciò tutti a gara a tale spettacolo, e constatano come Dio non aveva veramente mai fatto cose sì grandi ad alcun’altra nazione e sono tutti ripieni di stupore.
Qui sospendo lo scritto, non volendo balbettare ciò che non potrei descrivere. Giovanni Frigia Pennate, allora fanciullo, in seguito proconsole di Roma e conte del Sacro Palazzo, quello che allora insieme alla madre, vide con i con i propri occhi e toccò con le proprie mani liberamente l’afferma con giuramento, lo confessa contro tutti i dubbi. Ritorni ormai la pellegrina alla sua città, consolata dal privilegio di tanta grazia, e noi, dopo aver narrato la morte del santo, passiamo ad altro.
Morti risuscitati per i meriti del beato Francesco
[863] Mi accingo a parlare dei morti risuscitati per i meriti del confessore di Cristo, e chiedo agli ascoltatori e ai lettori di essere attenti. Trascurerò nella narrazione, per amor di brevità, molte circostanze e, tacendo le esaltazioni degli ammiratori, annoterò soltanto le cose mirabili.
Nel paese di Monte Marano, presso Benevento, una donna di nobile casato, ancor più nobile per virtù, si era affezionata con speciale devozione a san Francesco e lo serviva con profonda dedizione. Oppressa da malattia e ormai giunta all’estremo, seguì la sorte di ogni mortale. Poiché essa morì verso il tramonto, venne differita la sepoltura al giorno dopo, per permettere alla numerosa folla dei suoi cari di partecipare al sacro rito. Di notte arrivarono i chierici con i salteri per cantare le esequie e le veglie notturne, mentre tutt’attorno stava la folla. Ed ecco all’improvviso, alla vista di tutti, si levò la donna sul letto e chiamò tra i presenti un sacerdote, suo padrino, dicendogli: «Voglio confessarmi, padre, ascolta il mio peccato! Io, infatti, sono morta ed ero destinata a una dura prigione, poiché non avevo confessato ancora un peccato che ora ti rivelerò. Ma avendo san Francesco, a cui fui sempre molto devota, pregato per me – essa soggiunse –, mi è stato permesso di ritornare in vita in maniera che, confessato quel peccato, possa meritare il perdono. Ed ecco, davanti a voi tutti, confessato il peccato, mi affretterò al promesso riposo». Confessatasi con tremore al tremante sacerdote e ricevuta l’assoluzione, essa si coricò quietamente sul letto e si addormentò felice nel Signore.
Chi può dunque esaltare con degne lodi la misericordia di Cristo? Chi celebrare la virtù della confessione e i meriti del santo con degna lode?
[864] A dimostrare come tutti debbano ricevere con amore l’ammirabile dono divino della confessione e anche perché giustamente si chiarisca come questo santo sempre godette di merito singolare presso Cristo, bisogna riferire ciò che egli mirabilmente manifestò, mentre viveva nel mondo, e ciò che, dopo la sua morte, ancor più chiaramente rivelo` di lui il suo Cristo.
Una volta, recatosi il beato padre Francesco a Celano per predicare, fu da un cavaliere invitato con devote e ripetute preghiere a pranzare con lui. Egli dapprima si rifiutò, facendo lunga resistenza, ma infine si lasciò convincere costrettovi dall’insistenza. Giunse il momento del pranzo e venne imbandita una splendida mensa. L’ospite devoto si rallegrò, e tutta la famiglia si allietò all’arrivo dei frati poverelli. Il beato Francesco, rimanendo in piedi e levando gli occhi al cielo, chiamò a sé l’ospite. «Ecco – disse –, fratello ospite, vinto dalle tue preghiere sono entrato per mangiare in casa tua. Adesso obbedisci subito al mio avvertimento, poiché tu non qui mangerai, ma in altro luogo. Confessa con devozione e contrizione le tue colpe, e non resti peccato in te che non confessi. Oggi il Signore ti ricompenserà perché hai così devotamente accolto i suoi poverelli». Si convinse subito quell’uomo alle parole sante e, chiamato il compagno di san Francesco che era sacerdote, gli svelò con sincera confessione tutti i suoi peccati. Diede disposizione per la sua casa e se ne stava aspettando, senza ombra di dubbio, che si compisse la parola del santo. Infine tutti si sedettero a
mensa e cominciarono a mangiare e, anch’egli, fattosi il segno della croce, allungò tremando la mano verso il pane, ma prima di poterla ritrarre, chinò il capo ed esalò lo spirito.
Quanto bisogna amare la confessione dei peccati! Si osservi, un morto viene risuscitato perché si possa confessare, e perché un vivo non debba perire in eterno, viene liberato con il beneficio della confessione.
[865] Un fanciulletto di appena sette anni, figlio di un notaio di Roma, desiderando accompagnare, al pari dei bambini, la madre che si recava alla chiesa di San Marco per la predica, venne invece rinviato da lei a casa; amareggiato, il piccolo, travolto da non so quale diabolico istinto, si gettò dalla finestra. Abbattutosi, con un ultimo sussulto spirò. La madre, che non si era ancor molto allontanata, al tonfo del corpo caduto, sospettando il dramma del suo tesoro, corse velocemente a
casa e scorse il figlio esanime. Subito essa avventò contro di sé le mani vendicatrici, mosse al pianto i vicini e vennero chiamati i medici presso il corpo esanime. Potranno forse essi ridare vita al morto? Erano ormai inutili le prognosi e le cure, i medici potevano spiegare, ma non rimediare il fatto, solo ormai di competenza di Dio. Privo infatti di calore e di vita, di sensibilità, di moto e di forza, il bimbo viene dichiarato morto dai medici. Frate Rao, dell’Ordine dei minori, predicatore famosissimo in tutta la città di Roma, giunto là per predicare, si avvicinò al fanciullo e pieno di fede si rivolse al padre: «Credi tu che il santo di Dio, Francesco, possa risuscitare dai morti tuo figlio, per quell’amore che egli sempre portò al Figlio di Dio, il Signore Gesù Cristo?». Rispose il padre: «Con fermezza lo credo e lo confesso. Sarò in eterno al suo servizio e visiterò pubblicamente il suo santo luogo». Quel frate allora si inginocchiò con il suo compagno, invitando tutti a pregare. Terminata la preghiera, il fanciullo cominciò a poco a poco a sbadigliare, ad alzar le braccia e a rialzarsi. Accorre la madre e abbraccia il figlio; il padre non sa contenersi per la gioia e
tutta la folla, piena di ammirazione, magnifica Cristo e il suo santo con altissime grida. Subito il fanciullo prese a camminare davanti a tutti, restituito alla vita in ottimo stato.
[866] I frati di Nocera chiesero un carro, di cui avevano bisogno per un po’ di tempo, a un uomo di nome Pietro, ma egli rispose stoltamente: «Io scuoierei due di voi insieme a san Francesco, piuttosto che prestarvi il mio carro». Si pentì subito però quell’uomo di aver proferito sì grande bestemmia e, percuotendosi la bocca, invocava misericordia. Temeva infatti una punizione, come infatti accadde. Durante la notte vide in sogno la sua casa piena di uomini e di donne che intrecciavano danze in gran giubilo. Di lì a poco suo figlio, di nome Gafaro, si ammalò e, trascorso poco tempo, spirò. Le danze, viste in sogno, si cambiarono in lutto e la gioia in pianto. Si ricordò allora della bestemmia che aveva proferito contro san Francesco, e lo strazio gli insegnò quanto fosse stata grave la sua colpa. Si ravvoltolava per terra e si disperava senza cessare un istante di invocare san Francesco, dicendo: «Sono io che ho peccato; me, avresti dovuto colpire! Ridona, o santo, il figlio al penitente che già ti bestemmiò. Mi arrendo a te, per sempre mi presterò ai tuoi desideri, giacché ti offrirò sempre tutte le primizie».
Cosa meravigliosa! A tali parole il fanciullo si alzò e, ordinando di cessare il pianto, così raccontò la vicenda della sua morte: «Mentre io giacevo morto – disse – venne il beato Francesco e mi condusse per una strada buia e molto lunga. Poi mi fece sostare in un giardino così splendido, così piacevole, che tutto il mondo non si potrebbe paragonare ad esso. Mi ricondusse poi per la stessa strada, dicendomi: ‘‘Ritorna da tuo padre e da tua madre, non voglio trattenerti qui più a lungo’’. Ed eccomi di ritorno, secondo il suo volere».
[867] Nella città di Capua, mentre un fanciullo giocava con altri presso la sponda del fiume Volturno, cadde per distrazione dalla riva del fiume e fu travolto. La corrente del fiume lo investì con violenza, seppellendolo morto sotto la sabbia. Alle grida dei fanciulli che con lui si erano divertiti presso il fiume, corsero velocemente con funi molti uomini e donne e, saputo della disgrazia, invocavano piangendo: «San Francesco,
rendi il fanciullo al padre e al nonno che lavorano al tuo servizio!». Infatti il padre e il nonno del fanciullo avevano lavorato con ardore alla costruzione di una chiesa in onore di san Francesco. Mentre dunque tutto il popolo supplicava e invocava devotamente i meriti del beato Francesco, un nuotatore che stava non molto lontano, udite le grida, si avvicinò. E saputo che da oltre un’ora il fanciullo era caduto nel fiume,
dopo aver invocato il nome di Cristo e i meriti del beato Francesco, depose le vesti e si buttò nudo nel fiume. Non conoscendo punto il posto dove il fanciullo era precipitato, cominciò a scandagliare qua e là con attenzione le rive e il fondo del fiume. Finalmente, per divino volere, scoprì il luogo dove il fango aveva coperto come in una tomba il cadavere del fanciullo. Dopo aver scavato e riportato fuori il corpo, constatò con dolore che il fanciullo era morto. Benché la gente tutt’attorno vedesse che il fanciullo era morto, tuttavia continuava a insistere con gemiti e grida: «San Francesco, restituisci il fanciullo a suo padre!». Il beato Francesco, come si poté vedere nella realtà che seguì, quasi provocato dalla devozione e dalle preghiere della folla, subito ridiede vita all’esanime fanciullo. Rialzatosi, fra la gioia e la meraviglia di tutti, egli supplicò di esser portato alla chiesa del beato Francesco, e asserì di essere stato risuscitato per la sua intercessione.
[868] Nella città di Sessa (Aurunca), nel borgo che passa sotto il nome «Le Colonne», il traditore delle anime e l’assassino dei corpi, il diavolo, abbatté una casa, facendola crollare; egli aveva tentato di uccidere molti fanciulli che si divertivano allegramente attorno alla casa, ma riuscì a inghiottire soltanto un giovinetto, che al crollo della casa fu ucciso sul colpo. Uomini e donne, sorpresi dal fracasso della casa che crollava, accorsero da ogni parte e togliendo qua e là le travature, riportarono il figlio ormai esanime all’infelice madre. Essa, graffiandosi il volto e strappandosi i capelli, rotta da amari singhiozzi
e tutta in lacrime, gridava con tutte le sue forze: «O san Francesco, san Francesco, rendimi mio figlio!». E non solo essa, ma tutti i circostanti, sia uomini che donne, amaramente singhiozzando gridavano: «San Francesco, rendi il figlio all’infelice madre!». Dopo un’ora la madre, riavendosi
tra i sospiri da tanto dolore, pronunciò questo voto: «O san Francesco, restituisci a me, così infelice, il figlio mio e io ornerò il tuo altare con un filo d’argento, lo adornerò con una tovaglia nuova e accenderò candele tutto intorno alla tua chiesa!». Il cadavere fu deposto sul letto, poiché ormai era notte, in attesa di seppellirlo il giorno dopo. Verso la mezzanotte, però, il giovane cominciò a sbadigliare e, mentre gli si andavano riscaldando gradatamente le membra, prima che albeggiasse, rinvenne del tutto e proruppe in esclamazione di lode. Tutto
il popolo e il clero, vedendolo sano e salvo, rivolsero ringraziamenti
al beato Francesco.
[869] Nella città di Pomarico, situata fra i monti della Puglia, un padre e una madre avevano un’unica figlia in giovane età, che amavano teneramente. E poiché non speravano altro erede in futuro, essa costituiva per loro oggetto di ogni affetto, ragione di ogni cura. Ora, ammalatasi e in pericolo di morte, padre e madre della fanciulla erano come tramortiti dal dolore. La vegliavano e l’assistevano per giorni e notti intere senza tregua; ma una mattina, purtroppo, la trovarono morta. Forse c’era stato da parte loro un attimo di disattenzione, per un colpo di sonno o per la stanchezza della veglia. La madre, privata in tal modo della dolce figlia e perduta insieme la speranza di un erede, sembrò morire. Si radunano parenti e vicini per il tristissimo funerale e si preparano a tumulare il corpo esanime, mentre l’infelice madre giace oppressa da indicibili pene e, tutta presa da grandissimo strazio, non s’accorge neppure di quanto avviene. Frattanto san Francesco, accompagnato da un solo confratello,
visita la madre addolorata e la consola con affabilità dicendole: «Non piangere, giacché alla tua lucerna, ormai del tutto spenta, ecco io restituirò la luce!». Si rialzò subito la donna e, rivelando a tutti ciò che le aveva detto san Francesco, impedì che il corpo dell’estinta venisse trasportato altrove. Voltasi dunque la madre verso la fanciulla, invocando il nome del santo, la sollevò viva e risanata. Lasciamo ad altri descrivere la meraviglia che riempì i cuori dei presenti e la gioia incredibile dei genitori.
[870] In Sicilia, un giovane di nome Gerlandino, originario di Ragusa, andò con i genitori a lavorare nella vigna, al tempo della vendemmia. Mentre egli si era calato sotto il torchio per riempire in un tino gli otri, d’improvviso, essendosi mossi i travicelli di legno, le grosse pietre con le quali si spremeva la vinaccia franarono colpendolo mortalmente al capo. Si affretta il padre verso il figlio e, preso dalla disperazione, non l’aiuta a rimuovere il peso e lo lascia come era caduto. Attirati dalle grida del disperato richiamo, accorsero rapidi i vendemmiatori e, commiserando l’infelice padre, estrassero il figlio dal peso sotto cui giaceva. Postolo in disparte, ne avvolsero il corpo esanime e cominciarono a provvedere alla sua sepoltura. Il padre, invece, si getta in ginocchio ai piedi di Gesù, affinché si degni per i meriti di san Francesco, di cui era prossimo il giorno festivo, di restituirgli vivo l’unico figlio. Moltiplica le preghiere, fa voto di opere di pietà e promette di visitare il più presto possibile le reliquie del santo. Più tardi accorre la madre, e piena di disperazione si getta sul figlio e piangendolo commuove al pianto anche gli altri. D’un tratto il giovane si rialza e, richiamando coloro che lo piangevano, si rallegra per esser stato restituito alla vita, grazie all’aiuto di san Francesco. Allora la gente, là radunata, innalza grida di gioia al cielo, e proclama che Iddio, per merito del suo santo, ha liberato il giovane dal laccio della morte.
[871] Il santo risuscitò anche un altro morto in Alemagna. Di tal miracolo papa Gregorio per mezzo di una lettera apostolica, al tempo della traslazione del beato Francesco, testimoniò l’autenticità a tutti i frati che erano convenuti alla traslazione e al capitolo. Di questo miracolo non ho scritto la storia, non conoscendola, ben sicuro che la papale testimonianza sia argomento superiore a ogni asserzione. Passiamo ormai ai casi di altre persone, che il santo sottrasse alla morte.
Di coloro che il Santo sottrasse alla morte
[872] A Roma un nobile cittadino, di nome Rodolfo, aveva una torre abbastanza alta, e sulla torre, secondo l’uso, teneva un custode. Una notte, mentre il custode dormiva profondamente sulla cima della torre, giacendo su un mucchio di legna posto proprio sull’orlo sporgente del muro, si sciolse l’argano all’improvviso o forse per un guasto provocatosi alla base, e l’uomo fu sbalzato fuori con tutta la legna, abbattendosi dall’alto precipizio sul tetto del palazzo e dal palazzo al suolo. Al forte fragore si svegliò tutta la famiglia e il cavaliere, sospettando delle ostilità, si alzò e uscì con le armi in pugno. Sfoderata la spada, stava per vibrarla sull’uomo che giaceva a terra addormentato, con l’intenzione di colpirlo poiché non l’aveva riconosciuto. Ma la moglie del cavaliere, temendo che per caso fosse il proprio fratello, odiato a morte dal marito, gli impedì di colpirlo gettandosi sull’uomo sdraiato e lo difese con pietà. O meravigliosa profondità di quel sonno! Non alla doppia caduta, non al rumoroso clamore si risveglia quell’uomo assopito. Finalmente scosso da una mano sollecita si svegliò e, come strappato da un dolce sonno, si rivolse al suo padrone: «Perché mi svegliate dal sonno? Non ho mai dormito così dolcemente, giacché dormivo con grandissima soavità nelle braccia del beato Francesco». Venendo poi informato dagli altri della sua caduta, e vedendosi in basso, lui che si era coricato in alto, si meravigliò che fosse accaduta una cosa di cui non si era accorto. Tosto dinanzi a tutti promise di fare penitenza e, ottenuto il permesso del suo padrone, si accinse al pellegrinaggio. La donna poi fece mandare ai frati, che dimoravano in un suo castello fuori Roma, un bell’apparato sacerdotale, pegno di riverenza e di onore al santo. Le Scritture esaltano il grande merito dell’ospitalità e gli esempi lo provano. Il predetto signore infatti, quella notte, aveva dato alloggio a due frati minori, per amore di san Francesco, e anch’essi accorsi con gli altri avevano assistito all’accaduto.
[873] Nel paese di Pofi, situato in Campagna, un sacerdote di nome Tommaso si recò con molti a riparare un mulino di proprietà della sua chiesa. Sotto il mulino c’era un gorgo profondo e vi scorreva un canale di copiosa portata. Mentre dunque il sacerdote passeggiava incauto lungo le rive del canale, all’improvviso vi cadde dentro e in un attimo venne spinto dalla violenza impetuosa dell’acqua contro le pale, dalla cui forza viene mosso il mulino. Giaceva irrigidito su quel legno, incapace di qualsiasi movimento. Sulla sua faccia, coricato com’era, si scatenava la violenza dell’acqua, tale da annebbiargli sia l’udito che la vista. Non più la parola, ma soltanto il cuore gli era rimasto, con cui invocava flebilmente san Francesco. La vittima rimaneva così esanime per lungo tempo, mentre gli amici tornavano di corsa disperando ormai di salvarlo; finalmente il mugnaio propose: «Giriamo con forza il mulino in senso contrario in modo che ributti fuori il cadavere». Puntellandosi dunque con forza, fecero girare la macina in senso contrario e scorsero l’uomo caduto in acqua ancora vivo. Mentre il sacerdote ancor vivo continua a dibattersi nell’acqua, gli appare un frate minore vestito di abito bianco e cinto di corda che, con grande dolcezza, traendolo per un braccio lo tira fuori dal fiume e gli dice: «Io sono Francesco che tu hai invocato». Colui allora così liberato si meravigliò altamente e cominciò a correre qua e là esclamando: «Fratello, fratello!». E volto ai circostanti: «Dov’e`? Per quale strada si è allontanato?». Tutti i presenti allora, tremando, si buttarono proni a terra, glorificando Dio e il suo santo.
[874] Nella Capitanata alcuni fanciulli del borgo di Celano erano usciti insieme per falciare erba. C’era in quelle zone campestri un vecchio pozzo, il cui orlo era nascosto da erbe verdeggianti e conteneva acqua profonda quattro passi. Mentre dunque i fanciulli correvano qua e là, all’improvviso uno cadde nel pozzo. Ora, nell’istante stesso in cui egli era vittima della terrena disgrazia, invocò la celeste protezione: «San Francesco, – esclamò cadendo – aiutami!». Gli altri volgendosi attorno e vedendo che il fanciullo non si faceva più vedere, si misero a cercarlo, chiamando e vagando qua e là in lacrime. Infine, arrivati all’apertura del pozzo, dalle orme impresse sull'erba che stava risollevandosi compresero che il fanciullo doveva essere caduto dentro. Si affrettano piangenti al borgo e, chiamato un gruppo di uomini, ritornano verso l’amico, considerato ormai da tutti perduto. Venne calato uno con una fune nel pozzo; ed ecco, scorse il fanciullo fermo sulla superficie dell’acqua, perfettamente illeso. Estratto quindi dal pozzo, il fanciullo raccontò a tutti i presenti: «Quando all’improvviso sono caduto, ho invocato la protezione di san Francesco, che subito mi si presentò mentre stavo cadendo, stendendomi una mano mi sollevò dolcemente, non abbandonandomi più fino a che, insieme a voi, mi trasse dal pozzo».
[875] Si era desistito dalle cure di una fanciulla di Ancona, ormai sfinita da malattia mortale, e già si facevano i preparativi per il suo trapasso e per i funerali. A lei, ormai giunta all’ultimo respiro, si presenta il beato Francesco e le dice: «Confida, figlia, perché per mia intercessione sei del tutto sanata. E tu non rivelerai a nessuno la sanità, che ti restituisco, fino a sera». Giunta la sera, la fanciulla si alzò sul letto all’improvviso, facendo fuggire i presenti, impauriti. Essi credevano che un demonio si fosse impadronito del corpo della morente e che, mentre l’anima si allontanava, le fosse succeduto uno spirito malvagio. La madre ebbe il coraggio di correrle vicino e facendo molteplici scongiuri contro il demonio, poiché pensava si trattasse di quello, si sforzava di coricarla sul letto. Ma ad essa la figlia disse: «Per carità, mamma, non credere che sia il demonio, giacché all’ora terza il beato Francesco mi ha guarita, ordinandomi di non dirlo a nessuno fino ad ora». Il nome di Francesco divenne causa di meravigliosa letizia per coloro che il timore del demonio aveva fatto fuggire via. Invitarono poi la fanciulla a mangiare carne di gallina, ma essa rifiutò di mangiare, essendo tempo della quaresima maggiore: «Non temete! – disse –. Non vedete san Francesco tutto vestito di bianco? Ecco, egli mi proibisce di mangiar carne, perché è quaresima, e mi ordina di offrire la veste funebre a una donna che sta in carcere. Guardate ora, guardate e vedete che si sta
allontanando!».
[876] C’erano in una casa, presso Nettuno, tre donne, di cui una molto devota ai frati e a san Francesco. Squassata dal vento, la casa crollò e travolse due di esse, uccidendole e seppellendole. Il beato Francesco, subito invocato, si presentò e non permise che la sua devota fosse ferita in alcun modo. Infatti il muro, a cui la donna era appoggiata, rimase intatto all’altezza di lei, e su di essa una trave, precipitando dall’alto, si adattò in modo da sostenere tutto il peso del gravoso crollo. Agli uomini, accorsi al fragore del crollo, non rimase che piangere per le due donne morte e ringraziare san Francesco per quella rimasta viva, devota dei frati.
[877] Presso Corneto, grosso paese e assai potente della diocesi di Viterbo, dove si procedeva nel luogo dei frati alla fusione di una campana di non poco peso, ed erano venuti molti amici dei frati per portare il loro aiuto, portata a termine la fusione, con grande letizia si cominciò a pranzare. Ed ecco, un fanciullo di appena otto anni, di nome Bartolomeo, il cui padre e lo zio avevano lavorato per la fusione, portare ai convitati una vivanda. All’improvviso si sollevò un violentissimo vento, che scosse l’edificio e scagliò contro quel fanciullo la porta della casa che era molto grande e molto pesante. L’urto fu di tanta violenza da far credere che egli, oppresso dall’immane peso, ne fosse rimasto fatalmente schiacciato. Infatti giaceva del tutto coperto sotto il peso, sì che non si poteva vedere nulla di lui. Alla fusione succede la confusione e alla gioia dei convitati il lutto dei dolenti. Si alzarono tutti dalla mensa,
lo zio insieme agli altri, invocando san Francesco, e accorsero presso la porta. Invece il padre, irrigidito dalla sorpresa e non potendosi muovere per lo strazio, faceva promesse ad alta voce e offriva il figlio a san Francesco. Venne tolto il peso funesto di dosso al fanciullo ed ecco apparire lieto, senza alcun segno di lesione, come svegliato dal sonno, colui che tutti credevano morto. Alla confusione seguì il ritorno della gioia e all’interruzione del pranzo una grandissima esultanza. Il fanciullo stesso ebbe occasione di assicurare proprio a me che non era rimasto in lui nessun segno di vita, finché giaceva sotto il peso. In seguito, a quattordici anni di età, divenne frate minore, e fu anche letterato ed eloquente predicatore dell’Ordine.
[878] A un fanciullo dello stesso paese, che aveva inghiottito una fibbia d’argento messagli in mano dal padre, si bloccò il passaggio della gola, sì che non poteva in alcun modo respirare. Il padre piangeva con immensa amarezza, reputandosi omicida del figlio, e si rotolava per terra come un pazzo; la madre con i capelli scarmigliati si graffiava tutta e piangendo
lamentava il disgraziato incidente. Gli amici tutti, partecipi a tanto dolore, piangevano il giovane in piena salute, rapito da morte sì repentina. Il padre implorava i meriti di san Francesco, e formulava un voto, perché liberasse il figlio. Ed ecco tosto il fanciullo rigettare dalla bocca la fibbia e benedire insieme a tutti il nome di san Francesco.
[879] Un uomo di Ceprano, di nome Nicola, un giorno capitò fra le mani di crudeli nemici. Essi con rabbia ferina, aggiungendo percossa a percossa, non cessavano di infierire sopra il poveretto, fino a che sembrò morto o vicino a morire. Quindi abbandonandolo moribondo, si allontanarono grondanti di sangue. Ora il predetto Nicola aveva gridato, ricevendo i primi colpi, con altissima voce: «Aiutami, san Francesco! Soccorrimi, san Francesco!». Molti avevano udito da lontano questa invocazione e tuttavia non potevano portargli soccorso. Riportato a casa, tutto sporco di sangue, gridava di non essere vicino alla morte, di non sentir alcun dolore, poiché san Francesco gli era venuto in soccorso, ottenendogli da Dio un tempo per la penitenza. E così, veramente purificato dal sangue, fu prontamente salvato al di là di ogni umana speranza.
[880] Degli uomini di Lentini tagliarono dal monte una grandissima lastra di pietra, destinata a essere posta sopra l’altare di una chiesa del beato Francesco, che doveva esser consacrata di lì a poco. Ora, mentre circa quaranta uomini erano intenti a collocare la pietra sul carro, dopo rinnovati tentativi, ecco, la pietra cadde su uno di loro, coprendolo come un sepolcro. Storditi, non sapendo che cosa fare, molti di loro si
allontanarono disperati. I dieci uomini che erano rimasti, con lamenti invocavano san Francesco perché non permettesse che un uomo, mentre attendeva al di lui servizio, morisse in maniera così sfortunata. L’uomo sepolto giaceva mezzo morto, e con quel poco di vita che gli era rimasta chiedeva aiuto a san Francesco. Finalmente quegli uomini, ripreso coraggio, riuscirono a spostare con tanta facilita` la pietra, che nessuno poté dubitare che vi avesse posto mano san Francesco. L’uomo si alzò in piedi incolume, lui che era stato quasi morto ritornò in vita; ritrovò il lume degli occhi, lui che prima l’aveva offuscato, perché a tutti fosse dato di comprendere quanto valgano in disperate circostanze gli aiuti di san Francesco.
[881] Anche a San Severino nelle Marche accadde un fatto simile, degno di essere ricordato. Un grandissimo masso di pietra, portato da Costantinopoli per il fonte di san Francesco da costruirsi presso Assisi, veniva trascinato con rapidità con la forza di molti uomini; uno di essi cadde sotto il masso, sì da essere ritenuto non solo morto, ma addirittura ridotto in pezzi. All’improvviso, così gli sembrò, e la verità fu confermata dalla realtà, gli si presentò san Francesco che, sollevando il masso, lo tirò fuori senza alcuna lesione. Così avvenne che ciò che era stato orribile a vedersi, divenisse per tutti oggetto di ammirazione.
[882] Bartolomeo, cittadino di Gaeta, mentre lavorava con impegno nella costruzione di una chiesa di san Francesco, tentava di mettere in opera una trave. Questa però, non essendo ben collocata, cadde lesionandolo gravemente al capo. Allora, tutto grondante sangue, con quel filo di vita che gli era rimasto, chiese a un frate il viatico. Ma il frate non riusciva a trovarlo subito e poiché credeva che l’uomo morisse in pochi istanti, gli rivolse la parola di sant’Agostino, dicendo: «Abbi fede e sarà come se l’avessi mangiato». Ma la notte seguente gli apparve il beato Francesco con undici frati e, portando un agnellino in seno, si accostò al suo letto, lo chiamò per nome dicendogli: «Non temere, Bartolomeo, non prevarrà contro di te il nemico che ha tentato di impedire di porti al mio servizio, perché, ecco, ti alzerai sano e salvo! Questo è l’Agnello che tu chiedevi ti fosse dato e che hai ottenuto per il tuo onesto desiderio. Invero il frate ti ha dato un consiglio utile». E così passando la mano sulle ferite, gli ordinò di tornare al lavoro che aveva iniziato. Alzatosi di buon mattino e presentandosi incolume e sano a coloro che l’avevano lasciato quasi morto, li riempì di ammirazione e di stupore. Credevano proprio tutti per l’insperata guarigione di vedere un fantasma e non già un uomo, uno spirito e non già un uomo di carne.
Poiché si è fatta menzione degli edifici da erigersi in onore di questo santo, ho creduto bene di narrare qui un prodigio assai meraviglioso.
[883] Una volta due frati minori stavano lavorando a un’impresa non piccola, fabbricavano cioè una chiesa in onore del santo padre Francesco nella città di Peschici, nella diocesi di Siponto, e non avevano il necessario alla costruzione dell’edificio. Una notte, mentre erano alzati a recitare le lodi, cominciarono a sentire un fragore di pietre che cadevano a mucchi. Si incoraggiarono a vicenda e si avvicinarono per vedere; e uscendo fuori, scorsero una grandissima folla di uomini che facevano a gara a radunar pietre. Tutti andavano e venivano, e tutti indossavano abiti candidi. La grande massa di pietre là radunata dimostrò che la cosa non era frutto di fantasia, dato che la provvista non venne meno fino a che il lavoro non fu terminato. Non furono certo uomini in carne e ossa a compiere tale opera: infatti, nonostante diligenti ricerche, non fu trovato nessuno che avesse pensato a ciò.
[884] Il figlio di un uomo nobile, a Castel San Gimignano, era colpito da grave malattia e, ormai senza alcuna speranza, era ridotto agli estremi. Un rivolo di sangue gli fluiva dagli occhi, come può sgorgare da una vena del braccio; c’erano poi altri indizi reali di prossima morte nel resto del corpo, sì che sembrava addirittura che l’uomo fosse già spirato. Radunatisi, secondo l’uso, parenti e amici a piangere, e ordinato il funerale, si parlava ormai soltanto della sepoltura. Nel frattempo il padre, circondato dalla folla dei piangenti, si ricordò di una visione di cui prima aveva sentito parlare. Corse dunque alla chiesa di san Francesco, costruita nella stessa località, con il cordone avvolto al collo, e con umiltà si prostrò a terra, dinanzi all’altare. Facendo voti e molto pregando, tra sospiri e gemiti, meritò di avere san Francesco come avvocato presso Cristo. Il padre tornò subito dal figlio e lo trovò guarito; allora il lutto si mutò in gaudio.
[885] In Sicilia, nel borgo di Piazza già si celebravano i dovuti riti per l’anima di un giovane; ma, dopo che uno zio ebbe offerto un voto a san Francesco, per intercessione del santo il giovane fu richiamato alla vita dalle soglie della morte.
Nello stesso borgo, un giovane di nome Alessandro, mentre tirava una fune con dei compagni sopra un profondo precipizio, la fune si spezzò ed egli precipitò dalla roccia e fu raccolto ormai morente. Suo padre, singhiozzando tra le lacrime, lo offrì al santo di Cristo, Francesco, e ottenne la grazia di averlo ancora sano e incolume.
[886] A una donna dello stesso paese, ammalata di tisi, ormai ridotta agli estremi, venne impartita l’estrema unzione; ma, dopo che i presenti ebbero invocato il santissimo padre, essa improvvisamente guarì.
[887] Presso Rete, in diocesi di Cosenza, accadde che due fanciulli dello stesso paese, mentre erano a scuola, si mettessero a litigare, e uno di essi venne così gravemente ferito dall’altro che, da una grave ferita riportata allo stomaco, usciva il cibo non digerito; non aveva così il ragazzo alcuna possibilità di trattener cibo che, né digerito, né ritenuto in alcuna cavità, ancora intatto fluiva fuori dalla ferita. Non c’era nessun medico capace di curarlo. I genitori e il ragazzo stesso, dietro consiglio di un frate, perdonarono a colui che lo aveva ferito, e
fecero voto al beato Francesco che se avesse liberato dalla morte il fanciullo mortalmente ferito e ormai considerato incurabile dai medici, lo avrebbero mandato alla sua chiesa, e avrebbero ornato il tempio tutto intorno con ceri. Fatto il voto, il fanciullo fu del tutto mirabilmente sanato sì che, secondo i medici di Salerno, questo non fu un minor miracolo che se egli fosse risuscitato da morte.
[888] Mentre due persone si avvicinavano assieme a Monte San Giuliano (Trapani) per i loro affari, una di esse si ammalò sino a essere in pericolo di morte. I medici, chiamati a curarlo, accorsero, ma non riuscirono a farlo star meglio. Il compagno sano, allora, fece voti a san Francesco e promise che, se il malato fosse guarito per i meriti del beato padre, egli avrebbe osservato la sua festa annuale assistendo alla messa solenne. Formulate così le sue promesse, tornato a casa, trovò ristabilito colui che aveva da poco lasciato senza voce e coscienza, e che temeva fosse già morto.
[889] Un bambino della città di Todi giaceva a letto da otto giorni, come morto, con la bocca ormai chiusa, senza il lume degli occhi, con la pelle del viso, delle mani e dei piedi annerita al pari di una pentola; il suo stato era già da tutti considerato senza speranza. Dopo che sua madre ebbe fatto
un voto, improvvisamente egli ricuperò la salute. E benché così piccolo ancora non sapesse parlare, tuttavia racconto` balbettando che era stato guarito dal beato Francesco.
[890] Un giovane, precipitando da un posto molto alto, perdette la coscienza e restò paralizzato nelle membra; e per tre giorni continui non mangiò, né bevve, né dava segni di vita, e perciò venne ritenuto morto. Sua madre, senza chiedere alcun aiuto ai medici, domandò al beato Francesco la grazia della guarigione. Appena ebbe pregato, ritrovò il figlio vivo e guarito,
e cominciò a lodare l’onnipotenza del Creatore.
[891] Un fanciullo di Arezzo, di nome Gualtiero, soffriva di continue febbri e di due ascessi, e tutti i medici giudicavano il suo stato ormai inguaribile. Ma, formulato dai genitori un voto a san Francesco, egli venne ristabilito nella desiderata salute.
Idropici e paralitici
[892] Nella città di Fano un ammalato di idropisia, per intercessione del beato Francesco, meritò di essere completamente guarito da tale infermità.
[893] Una donna della città di Gubbio, che giaceva paralizzata in un letto, invocato per tre volte san Francesco perché l’aiutasse, fu liberata dalla sua infermità e risanata.
[894] Una fanciulla di Arpino, nella diocesi di Sora, era paralizzata a tal punto che, con le membra inerti e i nervi contratti, non poteva svolgere alcuna attività; sembrava posseduta dal demonio piuttosto che vivere con anima umana. Era talmente menomata da tale malattia, che sembrava a tutti tornata
alla prima infanzia. Finalmente sua madre, ispirata dall’alto, la condusse in una culla a una chiesa del beato Francesco presso Vicalvi, e versando molte lacrime e moltiplicando le preghiere, ottenne che fosse liberata da ogni traccia di malattia e restituita al precedente stato di salute.
[895] Nel medesimo paese un giovane colpito da paralisi, con la bocca irrigidita e gli occhi stravolti, fu accompagnato dalla madre a detta chiesa. Prima quel giovane era incapace di qualsiasi movimento; dopo che la madre ebbe per lui supplicato il santo, ancor prima di raggiungere la sua casa, venne
ristabilito alla primitiva salute.
[896] A Poggibonsi, una fanciulla di nome Ubertina era gravemente e incurabilmente ammalata di malcaduco; i suoi genitori, perduta ormai ogni fiducia nei rimedi umani, implorarono insistentemente il soccorso di san Francesco. Avevano poi insieme formulato il voto di digiunare ogni anno per la vigilia, e nel giorno della festa del santo di dare da mangiare ad alcuni poveri, se egli avesse guarito la loro figlia da quella insolita malattia. Appena emesso il voto, la fanciulla si riebbe del tutto guarita, né risultò in seguito in lei alcuna traccia di così grave malattia.
[897] Pietro Mancanella, cittadino di Gaeta, per una paralisi perdette l’uso di un braccio e di una mano, ed ebbe la bocca storta fino all’orecchio. Affidandosi alle cure dei medici, perdette anche la vista e l’udito. Si rivolse allora supplichevole al beato Francesco e fu guarito da ogni infermità, per i meriti del beatissimo uomo.
[898] Un cittadino di Todi era tanto sofferente per una artrite da non riuscire a riposare per il forte dolore. Infine, essendo ridotto allo stremo delle forze e non essendo alleviato in alcun modo dalle cure mediche, in presenza di un sacerdote si rivolse al beato Francesco e, appena ebbe emesso un voto, ricuperò la salute.
[899] Un uomo di nome Bontadoso era talmente sofferente per un dolore ai piedi che non poteva muoversi per niente; dopo aver perduto anche l’appetito e il sonno, fu convinto da una donna a votarsi al beato Francesco. Egli, irritato dal troppo dolore, diceva di non vedere che Francesco fosse un
santo; in seguito si arrese, all’insistente suggerimento della donna, e fece un voto così: «Mi consacro a san Francesco, e credo che sia un santo e mi libererà entro tre giorni da questa malattia». Subito poté rimettersi in piedi e si meravigliò, poiché era ritornata la salute scomparsa.
[900] Una donna, che da molti anni giaceva a letto per malattia, incapace di qualsiasi movimento, fu risanata da san Francesco e poté così attendere alle sue occupazioni.
[901] Un giovane, nella città di Narni, soffriva da dieci anni per una malattia che lo rendeva tutto così gonfio da non poter essere curato in alcun modo. La madre lo votò a san Francesco e subito ottenne da lui la grazia della guarigione.
[902] Nella stessa città una donna aveva da otto anni una mano paralizzata, sì da non esser in grado di fare nulla. Le apparve san Francesco in visione e, stirandole la mano, la rese capace di lavorare come l’altra sana.