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Vedere l'altro, un'arte difficile da imparare

Lucia Capuzzi Unsplash
Pubblicato il 11-06-2021

È necessario riconoscere l'umanità nel prossimo

A seppellire il figlio non ancora nato, Antonio Antunes è dovuto andare a piedi, con la piccola bara bianca tra le braccia, perché non aveva i soldi del bus. Il 'matto' Vanderlei Ferreira, ogni anno, si presenta alla fiera del bestiame del Rio Grande con un manico di scopa che dice essere il suo cavallo. Jorge Luiz Santos de Oliveria, il 'mangiatore di vetro' di Porto Alegre, soffre la concorrenza delle nuove 'attrazioni' di strada. Fermelinda Paes Campos, Noêmia Atela, Maria Prada, Paulo e Rosa Pimentel sono gli ospiti più o meno volontari, della residenza per anziani São Luiz. Esistenze talmente reali da sembrare inventate quanto totalmente marginali e, proprio per questo, protagoniste dei reportage di Eliane Brum. Perché «non esistono vite comuni ma solo occhi addomesticati», la peggior forma di cecità per un giornalista. «Chi ne soffre non può definirsi tale. Il nostro lavoro implica la capacità di stupirsi. Di 'vedere' che ogni vita è tessuta con il filo della straordinarietà. Resistere all' addomesticamento dello sguardo è un atto di resistenza quotidiana», afferma la reporter e scrittrice brasiliana, tra le firme più celebri del giornalismo narrativo contemporaneo. Collaboratrice di 'El Pais', 'The Guardian' e 'Internazionale', ha vinto oltre quaranta premi, tra cui l' Inter American Associated Press Award, restando sempre fedele alla propria scelta: puntare le pupilla e la penna sulle periferie dell' umanità. E raccontare donne e uomini invisibili o, meglio, 'invisibilizzati' da un sistema, sociale e mediatico, ossessionato dal 'centro' del potere. Non a caso, il suo ultimo libro tradotto in italiano, pubblicato da Sellerio, si intitola Le vite che nessuno vede( pagine 256, euro 16,00): un viaggio, attraverso una raccolta di articoli e inchieste, sul Brasile o, meglio, 'i Brasili' perché questo è un Paese che esiste solo al plurale e, pertanto, è specchio del mondo.

Da dove nasce la sua scelta radicale di raccontare le «vite che nessuno vede»?

È una scelta politica, nel senso più profondo del termine. Cosa merita di essere raccontato e cosa no? Non esiste una risposta oggettiva. È una decisione che prende chi ha il potere di farlo a partire da motivazioni razziali, sociali, di genere, da interessi economici o geopolitici. Questo fa sì che tante morti siano viste come 'naturali' poiché le vittime si trovano nella schiera delle 'sub-uma- nità'. 'De-naturalizzare' quanto è stato trasformato in 'naturale' non essendolo, è uno dei principali doveri del giornalista. Il titolo Le vite che nessuno vede, dunque, è tanto una provocazione quanto una dichiarazione etica. Il mio lavoro di giornalista consiste nel togliere a queste esistenze lo strato di invisibilità e aiutare il lettore a vederle. Mi affascina come ciascuno inventa la propria vita, le dà un senso, tesse narrative per ancorarsi al mondo. Lo trovo di una bellezza struggente.

Qual è la maggior difficoltà nel raccontare una 'vita invisibile'?

La capacità di realizzare quel 'movimento' che il reportage implica. Un movimento interno per spogliarsi di sé, dei propri preconcetti, giudizi, dogmi e vestire 'la pelle dell' altro', cioè un' esperienza altra di essere e stare al mondo. Si può fare solo grazie all' ascolto, molto più del semplice sentire. Significa svuotarsi il più possibile per riempirsi dell' altro e, poi, intraprendere un lungo cammino di ritorno. Il risultato di questo 'movimento' è il reportage: un' esperienza di ascolto che ha attraversato il mio corpo. Non è un cammino facile e lascia dei segni. Tutti i reportage che ho fatto mi hanno 'segnato': sono come fiumi che mi solcano, scavando letti. Mi sento come un fiume di storie, un bacino idrografico con affluenti grandi e piccoli.

Lei parla di un movimento interno. Non è sufficiente per un giornalista, dunque, come spesso si dice, consumare la suola delle scarpe per realizzare un buon articolo?

Non lo è. Se anche uno attraversa il mondo intero ma non è capace di uscire da se stesso in direzione dell' altro, sarà stato inutile perché non avrà conosciuto altro che il proprio io. Prima di attraversare le vie di pietra, terra, asfalto - o i fiumi, per me che lavoro molto nella foresta amazzonica -, si deve attraversare la propria strada interna.

Ma è davvero possibile vestire la pelle dell' altro?

La pelle dell' altro è il linguaggio, il primo mondo che ognuno di noi abita. Il reporter deve raggiungere questa lingua e convertirla in scrittura senza ridurla. O senza ridurre il mondo che racconta. È una sfida che può fallire a ogni tentativo.

Qual è la chiave?

L' ascolto: un' analisi rigorosa che esamina ogni dettaglio, suono, colore, gesto. E riproduce la parola esatta, non un' approssimazione. Il reportage, per essere capace di corrispondere alla vita, implica molto lavoro perché non si è autorizzati a inventare nulla.Né ad adattare la lingua di quanti si raccontano alla propria. Pertanto, si devono ascoltare non solo le parole ma il ritmo, il tempo, l' accordo musicale in cui la narrativa si svolge e che è sempre differente per ogni universo, comunità o persona. Questa è la lingua che si deve raggiungere e portare al lettore. Affinché egli stesso possa ascoltarla a partire dalla mediazione onesta, accurata, precisa del giornalista.

Dopo oltre trent' anni di professione, come definirebbe il giornalismo?

La documentazione rigorosa della storia in movimento. Il giornalista è uno storico del quotidiano: un lavoro delicatissimo, molto esigente perché abbiamo la distanza temporale di anni dai fatti come chi scrive del passato. Ciò che facciamo ha delle ripercussioni immediate. Per questo è una professione di enorme responsabilità: quando si sbaglia, non c' è riparazione possibile. Si può anche pubblicare la correzione a caratteri cubitali - fatto che per altro accade raramente - , ma il danno è già stato fatto.

In questo tempo di pandemia, l' incontro fisico con l' altro è ridotto al minimo. I contatti si svolgono perlopiù sulle piattaforme virtuali. Che impatto ha questo sul reportage?

Lo rende più difficile. Viviamo un momento complesso anche perché alla pandemia si aggiunge la crisi climatica. Le questioni sono tante. Non dobbiamo, però, vederle come limiti ma come sfide affascinanti. Come giornalista, ho imparato a non combattere i fatti e a non fuggire dalle contraddizioni. (Avvenire)

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