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Umberto Eco: Io senza fede, adoro la religione

Umberto Eco Ansa - Mourad Balti Touati
Pubblicato il 14-02-2021

Sono sempre stato affascinato dalla figura di un apostata

Sono sempre stato affascinato dalla figura di un apostata che rimane comunque attaccato ai miti, alle immagini e alle idee della religione che ha abbandonato. E questo perché, anche nei miei scritti successivi, il mio abbandono della fede è sempre stato accompagnato dal fascino per il pensiero medievale e dal rispetto per l'universo religioso.

Mi rendo conto che si tratta di un sentimento ambiguo, ma vorrei offrire l'esempio di quello che è successo quando ho scritto il mio primo romanzo, Il nome della rosa. È ambientato nel Medioevo e ne mette in scena le contrastanti visioni di verità e fede che già allora si agitavano. Il romanzo fu subito attaccato da alcuni critici cattolici (soprattutto dalla rivista dei gesuiti, «La civiltà cattolica») ma negli anni successivi mi furono conferite quattro lauree ad honorem da quattro università cattoliche, l' Università di Lovanio, la Loyola University, la Santa Clara University e il Pontificio Istituto di Toronto. Non potrei dire chi avesse ragione, ma sono contento che i sentimenti contraddittori che mi hanno accompagnato fino a oggi siano emersi anche attraverso il mio romanzo.

Un' altra prova del mio interesse per i problemi religiosi è stato lo scambio epistolare avvenuto nel 1996 con il cardinal Martini, l' arcivescovo di Milano (In cosa crede chi non crede? o Quando entra in scena l' altro, ora in Cinque scritti morali) che aveva accettato di dialogare con un non credente e lo aveva fatto con larghezza di vedute e grande rispetto per il pensiero altrui. Vorrei citare il mio ultimo commento sull' etica da quel dialogo.

Martini mi ha chiesto: «Qual è il fondamento della certezza e dell' imperatività delle azioni morali di chi, per stabilire il carattere assoluto di un' etica, non intende fare appello a principi metafisici o a valori trascendentali né addirittura a imperativi categorici universalmente validi?».

Ho cercato di spiegare i fondamenti su cui poggia la mia «religiosità laica», perché sono fermamente convinto che esistono forme di religiosità anche in assenza di una fede in una divinità personale e provvidente. Ho iniziato affrontando il problema degli "universali semantici", cioè di quelle nozioni elementari che sono comuni a tutta la specie umana e che possono essere espresse in tutte le lingue.

Queste nozioni comuni a tutte le culture si riferiscono tutte alla posizione del nostro corpo nello spazio. Siamo animali eretti, e così è faticoso stare a testa in giù per molto tempo, e per questo abbiamo una nozione comune di "su" e "giù", tendendo a privilegiare il primo rispetto al secondo.

Allo stesso modo abbiamo la nozione di destra e sinistra, di stare fermi e di camminare, di stare in piedi o sdraiati, di strisciare e saltare, di svegliarsi e dormire. Poiché abbiamo gli arti, sappiamo tutti cosa significa battere contro un materiale resistente, penetrare una sostanza morbida o liquida, schiacciare, tamburellare, prendere a pugni, scalciare, magari anche ballare.

La lista potrebbe essere lunga, e potrebbe includere vedere, sentire, mangiare o bere, inghiottire o espellere. E certamente ogni essere umano ha delle nozioni sul significato di percepire, ricordare, sentire desiderio, paura, dolore, o sollievo, piacere o dolore, e di emettere suoni che esprimono queste cose.

Quindi (e siamo già nell' ambito dei diritti) ci sono concetti universali che riguardano la costrizione: non vogliamo che nessuno ci impedisca di parlare, di vedere, di ascoltare, di dormire, di inghiottire, di espellere, di andare dove vogliamo; soffriamo se qualcuno ci lega o ci separa, ci picchia, ci ferisce o ci uccide, o ci sottopone a torture fisiche o psicologiche che diminuiscono o annullano la nostra capacità di pensare.... (Il Sole 24 Ore - © 2017 BY THE LIBRARY OF LIVING PHILOSOPHERS © 2021 LA NAVE DI TESEO EDITORE.)

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