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Storie dimenticate: il sacerdote e il seminarista uccisi

Aldo Cazzullo - Corriere della Sera Pixabay
Pubblicato il 30-05-2021

Il pentimento dopo 77 anni. Il dovere della memoria e la pacificazione. 

Fu arrestato, percosso, torturato, e fucilato nella notte tra il 29 e il 30 gennaio 1944 al Poligono di tiro di Reggio Emilia, con altri otto resistenti.
Sua madre, Orsolina, volle perdonare il giovane fascista che aveva partecipato alla fucilazione del figlio, Sergio Paderni, e scrisse: «Sull’esempio eroico dell’amato figlio don Pasquino e in sua memoria, per la pacificazione degli animi da lui auspicata nel supremo istante del sacrificio della propria vita, perdono cristianamente all’autoremateriale dell’iniqua sentenza». Sergio Paderni aveva appena quindici anni. Ebbe una vita lunga, diventò direttore generale della Programmazione sanitaria del ministero, fu uno dei padri del servizio sanitario nazionale.

Il 30 gennaio 2021, nel giorno del settantasettesimo anniversario della fucilazione, ha scritto una memoria — poche settimane prima di morire, il 25 marzo scorso —, in cui cita un’espressione del vescovo di Reggio Emilia, Massimo Camisasca: «Il sangue di don Pasquino Borghi è diventato luce». Un documento firmato da lui, Sergio Paderni, insieme con i familiari del sacerdote: «Io, Sergio, allora quindicenne, fui certo del perdono di don Pasquino subito dopo la mia partecipazione alla fucilazione. Mia madre lo comprese subito e lo scrisse alla mamma di don Pasquino, ringraziandola per il suo gesto: “Mio figlio non potrà mai dimenticare quello che ha visto in quella tragica mattina, e quel ricordo sarà sempre di sprone a bene operare in ogni azione della sua vita”. Da quel momento, cercai di dare alla mia vita il senso di un servizio ai malati e ai bisognosi, ricordando e invocando ogni giorno nelle mie preghiere l’intercessione di quell’uomo, il cui sangue, come disse monsignor Camisasca, è diventato luce».

Rolando Rivi era un seminarista di quattordici anni. Il mattino del 10 aprile 1945, di ritorno dalla messa, andò a studiare nel suo posto preferito, un boschetto vicino a casa. A mezzogiorno non si presentò a pranzo. I genitori trovarono i suoi libri sparpagliati a terra e un biglietto: «Non cercatelo. Viene un momento con noi partigiani». Dopo essere stato interrogato e torturato per tre giorni, il 13 aprile gli fu scavata la fossa. Il commissario politico dei rapitori, Giuseppe Corghi, gli sparò due colpi alla testa, troncando le proteste di alcuni dei suoi uomini, che facevano notare che in fondo era solo un ragazzo: «Sarà un prete di meno domani». Ora Rolando Rivi è beato. Ieri la sua festa liturgica è stata celebrata in tutto il mondo, anche nelle Filippine, dov’è nato un gruppo di «amici di Rolando», e in Vietnam. Da oltre trenta Paesi sono arrivate a Reggio Emilia richieste per avere sue reliquie; in tutto oggi sono 730 sparse per il mondo, quasi sempre un frammento della cassetta di legno in cui il corpo del beato è stato custodito. L’interesse attorno alla sua storia è cresciuto da quando tre anni fa Meris Corghi, la figlia del suo assassino, ha chiesto perdono per conto del padre.

Giuseppe Corghi non aveva mai parlato in famiglia della guerra. Né del periodo trascorso in carcere, né della fuga all’estero. Solo prima di morire aveva confidato il proprio tormento alla sorella, che ne parlò con Meris, la figlia di lui. Da quel momento Meris Corghi, cresciuta in una famiglia atea, ha iniziato con un frate domenicano un percorso di conversione, culminato in una preghiera pubblica sulla tomba di Rolando Rivi, nella Pieve di San Valentino. La figlia ha chiesto perdono per il padre, con queste parole: «Cristo ha salvato tutti gli uomini. Prima di spirare sulla croce usò il suo ultimo fiato solo per perdonare i suoi carnefici. Ciò che l’odio del Separatore ha diviso possa riunirsi nell’amore del Sacro Cuore di Gesù. Che il sorriso di Rolando possa risplendere su tutti voi e, accanto a lui, anche quello di mio padre». È stato un buon padre ed era un uomo buono, accecato dall’ideologia, ha confidato Meris Corghi.

Tra lo scoppio della guerra e il 1948, l’Emilia-Romagna ha avuto 64 sacerdoti fucilati o assassinati (oltre a 59 morti per cause belliche: 14 erano cappellani militari, 45 hanno perso la vita nei bombardamenti o sulle mine o per altri incidenti). Trentasette furono uccisi dai nazifascisti, ventisette da partigiani o ex partigiani comunisti. La diocesi di Reggio Emilia pagò un grave tributo di sangue. Il martirologio è impressionante. Don Giovanni Battista Pigozzi, parroco di Cervarolo, in montagna, messo al muro con ventidue suoi parrocchiani: «Vi accompagno io davanti al Signore». Don Giuseppe Donadelli, parroco di Vallisnera, fucilato dai tedeschi con due giovani. Don PietroDe Carli, picchiato selvaggiamente dai nazifascisti e gettato dentroun fienile in fiamme. Don Luigi Ilariucci, parroco di Garfagnolo, ucciso da due partigiani comunisti in quanto prete, nonostante accogliesse i resistenti feriti. Don Aldemiro Corsi, parroco di Grassano, ucciso insieme con la sua perpetua; gli assassini non sono mai stati individuati. Don Luigi Manfredi, assassinato dai comunisti sulla porta della canonica di Budrio. Don Dante Mattioli, parroco di Cogruzzo, prelevato da un commando partigiano con il nipote e mai tornato; come don Giuseppe Iemmi, che aveva collaborato con la Resistenza ma denunciò dal pulpito l’assassinio di due padri di famiglia innocenti da parte di ungruppo estremista. Don Carlo Terenziani, rapito la mattina del 28 aprile 1945 mentre entrava nel santuario della Ghiara, la «Cappella Sistina» di Reggio. Infine il caso più celebre: don Umberto Pessina, ucciso la sera del 18 giugno 1946 sulla soglia della canonica da assassini che confesseranno solo nel 1994. E negli ultimi anni sono emerse notizie di un prete, don Ennio Melioli, parroco di Montalto, morto il 27 maggio 1946 dopo una «sacchettatura», una tecnica che le frange irriducibili dei comunisti reggiani avevano mutuato dai titini: colpire con un sacco sottile pieno di sabbia, in modo da devastare gli organi interni senza lasciare tracce esterne.

Ora dal martirologio emergono due storie di pentimento e di perdono. Non si tratta di mettere sullo stesso piano i due fatti: un quindicenne che partecipa a un plotone d’esecuzione, e un commissario politico che spara alla testa di un ragazzino. E non si tratta di mettere sullo stesso piano i due fronti della guerra civile. Il fatto che vennero commesse atrocità da entrambe le parti non esclude che ci fosse una parte sbagliata, quella di HitlereMussolini, e una parte giusta, quella che combatteva il nazifascismo, e in cui militavano resistenti di ogni fede politica. E questo, sostiene Camisasca, era ben chiaro a quasi tutti i sacerdoti emiliani, già prima dello scoppio della guerra: «Dopo la proclamazione delle leggi razziali del 1938, anche se costretta al silenzio, la maggioranza pressoché assoluta del clero non ebbe più dubbi sul contenuto di odio e di negazione del Vangelo dei proclami del fascismo ».

È possibile sia custodire lamemoria, sia coltivare la pacificazione. Le due cose non sono in contrasto, anzi si alimentano a vicenda. «Le storie di don Pasquino Borghi e del beato Rolando Rivi, e dei diversi tormenti dei loro uccisori, testimoniano che lo spirito di Dio è all’opera — conclude il vescovo di Reggio —. Sarebbe importante che la Chiesa pensasse a un processo di canonizzazione comune a tutti i preti uccisi nella nostra terra in odium fidei, per odio verso la fede. Se l’Italia è risorta dopo la guerra, lo si deve anche al sacrificio di questi nostri fratelli, che hanno vissuto alla lettera l’indicazione di Gesù: “Nessuno ha un amore più grande di questo, dare la vita per i propri amici”».

di Aldo Cazzullo dal Corriere della Sera

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