societa

Sergio Zavoli, l’arte del racconto

Antonio Tarallo
Pubblicato il 21-09-2023

Tra i firmatari della "Carta di Assisi" 

Sergio Zavoli, ossia l’arte di scolpire immagini con le parole. In un solo uomo, tante anime: giornalista, prima di tutto; ma anche poeta e scrittore, narratore di fatti e di idee, di quelli che vengono definiti comunemente “punti di vista”. Definire la sua arte del racconto - perché di arte di vera e propria arte si tratta - non è impresa facile, non si può nascondere. Ogni suo saggio, ogni suo articolo sembrano quasi uscire da un’immaginaria favola che non può che cominciare con la fatidica frase: “C’era una volta”. Si è un po’ perso nel mondo della comunicazione di oggi, il gusto della narrazione per dare spazio piuttosto a un insieme di sintetiche informazioni che molto spesso non lasciano la possibilità al lettore di riflettere, di meditare e, dopo giusto discernimento, di “giudicare” la realtà: in poche parole, di farsi un’opinione. Zavoli, nella lunga carriera costellata di esplorazioni giornalistiche e televisive, fatta di inchieste e di saggi critici, riusciva a fare tutto ciò: far rivivere il passato in una cronaca, semplice ma approfondita e ricercata. In queste storie narrate non poteva certamente mancare la figura di San Francesco, anche lui ricercatore della verità.

In un libro, “I mondi di Francesco. Affreschi letterari dal ciclo giottesco di Assisi”, il giornalista scriveva in merito all’affresco giottesco che vede protagonista il santo d’Assisi donare il proprio mantello a un povero: “Francesco, da ragazzo, aveva nell’animo un desiderio nobile e ardito, quello di raggiungere il rango, e la destrezza, di un cavaliere; il cui simbolo, primo e ultimo, sarebbe stato il cavallo”. Con mirabile arte narrativa, concentrerà tutto l’articolo su quel cavallo: il simbolo che prende la parola, l’immagine che diviene fortezza di altre immagini e che riesce a fornire al lettore un ben preciso quadro di chi fosse il santo di Assisi. Nel piccolo saggio di Zavoli rivive il Francesco cavaliere medioevale che, trovato Dio, diviene ben altro cavaliere: “Offrendo al nobile mal ridotto una stoffa preziosa della bottega che domani rinnegherà, sembra compiere una sorta di “vendita” spirituale, in nome di un “acquisto” che già sale dall’animo: la rinuncia ad essere cavaliere, la scelta di confondersi nel creato da Dio, non dell’uomo”. E chiudeva con lapidarie ed esplicative parole: “E’ ancora sul cavallo, ma già pronto a scendere per un altro viaggio, arcano e definitivo”.

Nel 2019 è la volta de “La carta di Assisi. Le parole non sono pietre”, manifesto di un giornalismo di pace e di solidarietà. Anche Sergio Zavoli venne coinvolto nella luminosa e illuminante iniziativa. A riguardo ci lascia un piccolo scritto, poche righe ma dense, importanti, che ogni scrittore e giornalista dovrebbe oggi avere in mente. Oggi più che mai, visto le tante guerre che imperversano nel mondo, prima fra tutte quella che lambisce il territorio dell’Ucraina. Zavoli registra un grave problema della società moderna: l’isolamento in cui stiamo cadendo. Scrive di un’arcipelago di “innumerevoli isole, in ciascuna delle quali c’è uno di noi che vede l’umanità nella propria ombra, fidandosi di essa soltanto, pronto a intravedere in quella altrui qualcosa di sospetto, persino di ostile, da dover controllare e forse colpire”. Ed è a questo punto che entrano in gioco le parole che possono divenire: o barriere da porre nei confronti dell’altro, o parole che possono invece divenire “ponte” con l’altro. La comunicazione ha questa duplice veste. Zavoli ha visto, sempre, nei mezzi di comunicazione un modo per poter parlare del mondo al mondo; radiografie-fotografie da porre davanti al lettore-telespettatore per fornirgli una coscienza-conoscenza del mondo nel quale vive e, troppo spesso, sopravvive.

Per Sergio Zavoli il cercare il senso delle parole, quelle più adeguate, era il modo di cercare il modo più giusto per poter creare ponti, cercare di comprendere il mondo. Per lui, le parole sono state sempre “strumenti di pace e di misericordia, antidoti all’ostilità tra le persone”. Oggi, troppo spesso, siamo orfani di queste parole.

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