Morire per delle idee
Il secondo mandato rivolto da san Francesco ai suoi frati che meditano gli affreschi dal coro è incardinato nella resurrezione di una nobildonna di Montemarano nel Ducato di Benevento. Il racconto dell’episodio è già presente nel Trattato dei Miracoli di Tommaso da Celano, e più in sintesi nella Legenda Maior di san Bonaventura. Entrambi riferiscono come una donna, molto devota a san Francesco, essendo giunta a morte, con i chierici accorsi al suo capezzale che si apprestavano a cantare i salmi della veglia funebre, si levasse dal suo letto per dire a uno dei sacerdoti presenti di voler confessato un ultimo peccato. Era stato san Francesco a pregare il Signore di restituirla in vita giusto il tempo necessario per potersi confessare, come fece immediatamente per poi addormentarsi felice nel Signore. È quel che vediamo raffigurato in questo quadro, come spiega la didascalia sottostante che tradotta in lingua italiana significa “Il beato Francesco resuscitò questa donna morta, la quale, dopo aver fatta confessione di un peccato che non aveva ancora confessato, sotto lo sguardo di chierici e di altri che vi assistettero, di nuovo morta si addormentò nel Signore. E il diavolo fuggì confuso”.
Non parliamo dunque di una guarigione miracolosa: Francesco non riporta in vita una donna a lui devota, ma interviene per salvarle l’anima dalla morte eterna. È lo Zelus animarum tanto cercato dalla Chiesa sullo scorcio del XIII secolo, ma che anche Francesco aveva auspicato per sé nei versi finali delle Laudes creaturarum, quando sentì approssimarsi l’incontro con sorella morte: “Laudato si’, mi’ Signore, per Sora nostra Morte corporale, da la quale nullu homo vivente po’ skampare: guai a quelli ke morranno ne le peccata mortali; beati quelli ke trovarà ne le tue santissime voluntati, ka la morte secunda no ‘l farrà male”. Di conseguenza il vero soggetto dell’immagine è la morte dell’anima, che viene qui esorcizzata con il sacramento della confessione e col canto dell’ufficio funebre. Il dipinto ritrae l’interno di una abitazione domestica, dal soffitto altissimo a cassettoni sorretto da pilastri, al centro della quale compare un grande letto di dove si è levata una donna dall’apparenza di una persona anziana, con il capo avvolto da un velo bianco che lo fa sembrare un sudario. La donna sta parlando all’orecchio di un uomo anch’esso anziano, che ha il capo tonsurato e indossa una gran cappa color terra foderata di pelliccia. Un tempo mi confusi sull’abito del confessore e scrissi che la donna stava confessando i suoi peccati a un frate. Scrissi pure che era consuetudine poterlo fare, dato che nel 1282 Martino IV aveva concesso ai frati il ministero della confessione, senza dover ricorrere alla preventiva autorizzazione vescovile e vincendo l’opposizione del clero secolare: sbagliato anche questo. Ma è pure sbagliato, come è stato scritto, che l’assenza di frati all’interno della scena sta a significare come Francesco fosse dovuto intervenire perché il parroco non era stato capace di confessare correttamente la donna, da qui la necessità di una seconda confessione. Come di consueto la verità sta nel mezzo.
I frati Minori, da Ordine eremitico e prevalentemente composto da laici, si erano venuti progressivamente integrando all’interno della Chiesa, trasformandosi in un Ordine di chierici e conquistando gli stessi diritti del clero secolare, ma senza che questi potessero dirsene soddisfatti. Il successo crescente riscosso dai frati tra le popolazioni urbane, e l’impegno dei governi locali nel sollecitarne un trasferimento in città, costruendo per loro grandi conventi nei nuovi rioni popolari per esercitarvi la cura delle anime: battezzare, confessare, celebrare funzioni religiose, concedere sepolture private, subì una forte accellerazione nel 1288 con l’ascesa al pontificato del primo frate Minore, che prese il nome di Niccolò IV in ricordo del predecessore Niccolò III dal quale era stato nominato cardinale. Fu come se la storia della salvezza fosse venuta a identificarsi con la religione di san Francesco. Ad Assisi Niccolò IV volle riprendere i lavori decorativi intrapresi da Niccolò III sulle pareti del transetto superiore, facendo rappresentare la vita di san Francesco nella navata come momento finale nella via della salvezza, iniziata con le storie della creazione e dei Patriarchi e proseguita con la vita di Cristo.
Eppure Niccolò IV evitò di esasperare gli animi ed esortò i frati a praticare la moderazione e l’umiltà, con l’Ordine diviso tra Spirituali e Conventuali e il clero secolare sulle difensive. Ne è un esempio la storia della resurrezione della nobildonna di Montemarano, nella quale, a parte san Francesco che prega il Cristo dall’alto dei cieli, nessun frate Minore si presenta a una famiglia esclusivamente composta da donne, all’interno di un corteo funebre aperto da due giovani chierici che portano la croce e un cero, seguiti da un prete in un lussuoso abito azzurro foderato di pelliccia e con in mano il libro per l’ufficio dei defunti, con accanto due monaci dal capo tonsurato, seguiti da un laico che ha l’apparenza del notaio intervenuto per registrare il testamento. È la situazione che troviamo nelle biografie di Tommaso da Celano e di san Bonaventura, ma che risulta inusuale negli anni di esecuzione di questi affreschi, quando i frati Minori si attivarono per accogliere quanti più defunti possibili all’interno delle loro chiese e raccogliere i denari necessari alla costruzione dei loro grandi conventi urbani, tra le vivaci proteste del clero secolare e la rivolta dei frati Spirituali.
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