societa

Liliana Segre: La mano sacra di mio padre

Paolo Conti Corriere.it
Pubblicato il 23-04-2021

L'orrore e la vita nella testimonianza della Shoah

Una bambina di tredici anni, figlia unica, già orfana della madre, è costretta a lasciare per sempre la mano del padre condannato a un destino atroce. Un addio agghiacciante che segna un' intera esistenza ed è insieme il simbolo stesso della Shoah vista con gli occhi di una figlia disperata. Ora, a novant' anni di età, parla ai giovanissimi di oggi: «Mi rivolgo ai ragazzi. Non pensate che i vostri genitori siano sempre fortissimi, non pensate che a loro si possa chiedere tutto. A volte siete voi più forti dei vostri genitori, non siate avari di un abbraccio in più, o nel dire "Io sono qui, posso fare qualcosa per te?"». La memoria di una persecuzione è anche in questa commossa, accorata frase destinata a chi è figlio oggi, nella nostra contemporaneità. I genitori non sono onnipotenti, non sono eterni, sono fragili e possono scomparire come l' amatissimo padre di Liliana Segre. Anche se in questo caso ucciso a Auschwitz-Birkenau per la sola colpa di essere ebreo, destino condiviso con altri sei milioni di esseri umani, vittime dello sterminio nazista. Amate i padri e le madri, ci dice Liliana Segre, spesso sono loro ad avere bisogno di voi.

Il libro di Liliana Segre Ho scelto la vita. La mia ultima testimonianza pubblica sulla Shoah , edito da Solferino, con la prefazione di Ferruccio de Bortoli, curato da Alessia Rastelli, rappresenta un punto di arrivo e, insieme, di partenza. Di arrivo, perché il volume nella sua prima parte contiene l' ultimo discorso pubblico della senatrice a vita, sopravvissuta ad Auschwitz-Birkenau, pronunciato dopo trent' anni di memoria condivisa delle atrocità che ha vissuto e ha visto: una indimenticabile testimonianza tenuta il 9 ottobre 2020 all' associazione Rondine, ad Arezzo, accompagnata da Ferruccio de Bortoli. Lì, da anni, convivono insieme giovani che arrivano da Paesi in conflitto, e alla guerra sostituiscono il dialogo e la fratellanza. L' arrivo, quindi, è rappresentato dalla densità dei ricordi di Liliana Segre, simbolicamente consegnati alle nuove generazioni. Ma proprio qui c' è anche il punto di partenza, soprattutto quando racconta del crollo del nazismo, della fuga degli aguzzini, della decisione di non raccogliere una pistola abbandonata per terra e di non uccidere il crudelissimo comandante dell' ultimo campo, rimasto in mutande per fuggire: «Fu un attimo importantissimo, decisivo nella mia vita. Capii che mai, per nessun motivo al mondo, avrei potuto uccidere qualcuno. Capii che io non ero come il mio assassino. Non ho raccolto quella pistola e da quel momento - ho finito sempre così, negli anni, la mia testimonianza - sono diventata quella donna libera e quella donna di pace che sono anche adesso».

Nel racconto ai ragazzi di Rondine Liliana Segre ripercorre tutte le tappe della sua prigionia: il vagone sprangato, «il viaggio verso il nulla durato una settimana», l' abbandono della mano del padre («una mano sacra»), l' addio al proprio nome («non interessa a nessuno, voi d' ora in poi sarete un numero», quello tatuato sul braccio, «così ben fatto che dopo tanti anni il mio si legge ancora perfettamente: 75190»). E poi la fame, il gelo, le camere a gas e i forni crematori, la vita da prigioniera-schiava, la figura del dottor Mengele, «giudice infernale», che decideva della vita e della morte. Il continuo chiedere del padre in giro, un rito che poi si esaurì nella disperazione. E il «sognare di essere fuori di lì, il rumore di un bambino che gioca, un gattino, un prato verde, una nuvola, una qualsiasi cosa bella».

Nella seconda parte, nella densa intervista rilasciata ad Alessia Rastelli apparsa il 30 agosto 2020 sul «Corriere della Sera» in vista dei novant' anni della senatrice a vita, Liliana Segre riassume la sua esperienza ma soprattutto parla del «dopo», di quando, dopo essere miracolosamente sopravvissuta al lager, è tornata a Milano, col peso dell' impossibilità di raccontare. Un episodio per tutti: «Una professoressa di greco, in classe, davanti a tutti, disse che la mia deportazione era una "esperienza interessante". Fu tremendo. Per anni non parlai. Solo dopo una pesante depressione, intorno ai sessant' anni, capii che dovevo fare il mio dovere».

Ovvero il dovere della memoria, il racconto destinato ai giovani. Spiega lucidamente nell' introduzione Ferruccio de Bortoli, che è presidente onorario della Fondazione Memoriale della Shoah di Milano: «La memoria è un atto di giustizia postumo ma è soprattutto un' orazione civile senza la quale si perde la direzione della Storia e si smarriscono anche le stesse ragioni per le quali siamo insieme, come famiglie, come comunità. Senza memoria il destino è segnato dagli altri. E non sono mai i migliori. Anche per questa ragione non smetteremo mai di ringraziare Liliana per il suo coraggio e per la sua giovanile forza». Una forza che non la abbandona mai. Infatti, lo dice il titolo del libro, ha «scelto la vita». Ancora dall' intervista ad Alessia Rastelli: «Nel lager un passo avanti o indietro poteva cambiare il destino. Sono anziana, ma non sono mai uscita davvero dalla me stessa di allora. E ogni anno che passa mi chiedo: "Ma come ho fatto, ma come ho fatto, ma come ho fatto?" Potrei andare avanti all' infinito ma non ho la risposta». Il libro è arricchito da una sezione di approfondimenti. Prima di tutto una nota biografica di Liliana Segre, poi un' accurata cronologia che parte dal 1919, con la fondazione dei Fasci italiani di combattimento da parte di Benito Mussolini, e si conclude con l' inizio del Processo di Norimberga nel novembre 1945. Infine una serie di proposte di lettura, tra saggi storici, raccolte di testimonianze, film e siti di associazioni e di fondi della memoria. Tutto materiale utile a loro, ai giovani, alle nuove generazioni per le quali Liliana Segre ha speso trent' anni di infaticabile testimonianza. (Corriere della Sera)

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