La diversità delle cultura è il presente del mondo
Trasformare interculturalità nel termine etico e politico dell'avvenire comune dell'umanità
La diversità delle culture è il presente del mondo, la sua attualità e, al contempo, la sua ricchezza. Momento fragile e fecondo, il nostro: i popoli ormai si incrociano a sufficienza perché le loro diversità si incontrino; diversità non ancora cancellate dal rullo compressore dell'uniformazione. O è forse ormai troppo tardi e la diversità è già perduta (il grido disperato di Segalen)? Ma questa diversità che il viaggiatore ha perduto per sempre, non potremmo ricostruirla di nuovo nel pensiero? Perché è pur vero che oggi queste risorse culturali sono minacciate proprio come molte risorse naturali. E mentre la molteplicità delle lingue si sta riducendo sotto i nostri occhi, a velocità accelerata e alla mercé del globish e della sua comunicazione generalizzata sotto la pressione del mercato mondiale, si fanno strada anche nuovi nazionalismi, che pretendono di confinare le culture nel recinto di ostinate appartenenze, rivendicando la loro "identità" a colpi di facili cliché e aspirando all'imperialismo. In realtà, questi due fenomeni sembrano essere correlati tra loro, è come se si compensassero a vicenda. Moriremo sotto il peso della noia del primo (la perdita della Diversità) o schiacciati dalla stupidità del secondo (la rivendicazione identitaria)? O sotto il peso di entrambi, visto che sono due facce della stessa medaglia?
Una cosa, pertanto, è certa: è necessaria una terza via che ci sottragga al vicolo cieco in cui l'umano tende a svanire invece di dispiegarsi; una via che sciolga questo groviglio di costrizioni, ne elimini la fatalità e presenti d'ora in poi l'interculturalità come dimensione del mondo: la dimensione che 'fa mondo'. Ma che cosa significherebbe 'interculturalità' se anziché abbandonare questo termine al valore di un semplice slogan, decidessimo di trasformarlo nel termine etico e politico dell'avvenire comune dell'umanità? Perché il culturale, come ben sappiamo, si manifesta sempre e soltanto singolarmente: una lingua, un'epoca, un ambiente, un'avventura dello spirito, l'audacia improvvisa di un pensiero... Che cosa deve dunque implicare questo tra del 'tra' le culture - e dell'intra-culturalità di una cultura, ammesso che sia 'una' sola - perché diventi il luogo di un confronto reciproco, operante, interattivo, che permetta di esplorare gli scarti delle singolarità, in modo che queste singolarità, poste l'una di fronte all'altra, possano cominciare effettivamente a 'scambiarsi'?
Non abbiamo forse parlato troppo alla leggera di 'dialogo' tra le culture, contraddicendo il clash che oggi le minaccia, senza sondarne la condizione di possibilità? E innanzitutto, in che lingua avverrà questo dialogo? Ne consegue che la questione dell'interculturale ora all'improvviso interessa la filosofia, posizionata com' è di diritto - o così almeno crede - nell'universale. Una questione che la 'interessa' nel cuore o nel centro, o meglio ancora nell''inter', come lo dice la parola stessa in latino: inter-esse. E non in modo periferico, marginale o, per così dire, 'comparativo' - un confronto simile rimane esterno, decorativo e inoperante. Adesso la filosofia è esortata a uscire dall'Europa, per una necessità interna alla sua stessa vocazione, e a protendersi dal suo linguaggio e dalla sua storia verso l'incontro con altre lingue e altri pensieri di cui non immagina le risorse dall'interno dei propri. E chi potrebbe negarle questa urgenza, prima che una tale possibilità sia risucchiata dal cosiddetto pensiero 'mondiale', non universale come si vorrebbe tanto credere, ma uniforme e standardizzato?
Queste risorse provenienti da altrove mostrano alla filosofia altre possibili vie di pensiero o, per meglio dire, altre configurazioni del pensabile, e quindi la interrogano su ciò che da sola non pensa a indagare. Non più soltanto su ciò che pensa, ma su ciò che non sa di non pensare, su ciò che non pensa a pensare. Rispetto a cosa la filosofia sarebbe dunque tramontata? Per la filosofia qui è in gioco molto più di una critica o di un nuovo momento della sua storia, poiché per lei si tratta proprio di uscire finalmente dalla sua storia e al tempo stesso dalla sua connivenza e dal suo atavismo. Restituendole dall'esterno spunti di riflessione su di sé e soprattutto sulla singolarità delle sue origini, queste risorse venute da altrove la incitano a indagare sulle sue scelte implicite, i suoi pregiudizi più profondi, che affiorano ingenuamente nell''evidenza' (il 'lume naturale' dell'Età classica), ovvero sull'impensato che sorregge inconsapevolmente il suo pensiero - e, di conseguenza, a rielaborare la sua Ragione. Per tutto il Ventesimo secolo si è intravisto sul finire, nei più grandi, da Husserl a Merleau-Ponty e a Derrida, come la filosofia avesse conosciuto un destino 'occidentale'. Ma quale sarebbe allora il significato di 'Occidente'? E soprattutto in queste due dimensioni congiunte, dell'Essere e del Logos, 'onto-logia' e 'logo-centrismo'? Una simile inquietudine aveva già tormentato Nietzsche, il primo filologo della storia della filosofia. Hegel invece, come è noto, si è accontentato, nella sua Storia della filosofia, di lasciar nascere la filosofia in Oriente (là dove 'si leva' il sole), per poi farla effettivamente realizzare in Occidente: al tramonto, nell'ora in cui a levarsi è la nottola di Minerva, e sotto il segno dell'invenzione greca del concetto che diviene lo strumento principe del pensiero. Ma comincia ora un tempo nuovo, che deve fare inter-venire attivamente lingue e pensieri venuti da altrove in seno al filosofabile. (Avvenire; traduzione di Chiara Bongiovanni)
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