La deportazione dei Carabinieri
Perché non se ne parla?
C’è voluto del tempo. Tanto tempo. La ricerca storica non approfondiva. La divulgazione storica latitava. Ma, del resto, è impossibile fare divulgazione senza una solida ricerca alle spalle. Come risultato, non si parlava della deportazione dei carabinieri. Solitaria per anni si è levata la voce di Piero Terracina, sopravvissuto ad Auschwitz, un grande testimone della Shoah che ha dedicato la sua vita alla memoria storica, scomparso nel 2019, poco prima della pandemia. “Ma perché non si parla dei carabinieri? – continuava a ripetere – Perché in tutto questo lavoro sulla memoria manca la deportazione dei carabinieri? La nostra deportazione e la loro deportazione sono legate!”. Sì, c’è voluto del tempo ma alla fine ha avuto ragione lui. Ricerca e divulgazione hanno aperto una strada. Per i nazisti i carabinieri erano inaffidabili. Avevano giurato fedeltà al re in quanto capo dello Stato e mai sarebbero venuti meno a quel giuramento. Dopo l’8 settembre 1943, giorno dell’annuncio dell’armistizio, avevano combattuto per la difesa di Roma, con morti e feriti. Gente a cui certo non mancava il coraggio. L’aveva dimostrato a Palidoro Salvo D’Acquisto, fucilato dai nazisti il 23 settembre dopo essersi consegnato inerme e disarmato. Se uno come Salvo D’Acquisto aveva un coraggio simile, cosa avrebbero potuto fare migliaia di carabinieri armati dentro Roma?
Una guerra è innanzitutto un’impresa economica. Le operazioni belliche costano molto. Herbert Kappler, capo della Gestapo romana, doveva eseguire l’ordine di rastrellamento e deportazione degli ebrei. Ma non aveva risorse illimitate, non poteva dedicare alla razzia un’intera divisione. Aveva disponibili meno di 400 uomini, un centinaio per circondare il Ghetto e gli altri per rastrellare la città. Già, ma solo nella caserma di Viale Giulio Cesare c’erano più di 2000 carabinieri. Erano armati e in un rapporto di forze addirittura sproporzionato: 5 a 1, impossibile fermarli. Così l’ordine arrivò a tradimento, inviato dal generale Rodolfo Graziani, ministro d’una repubblica inventata da Mussolini per la tragedia finale della guerra. Una repubblica fascista che tradì i suoi stessi soldati. Consegnate le armi. Consegnati in caserma. Il 7 ottobre all’alba le SS colsero di sorpresa i carabinieri. Più di duemila furono caricati sui treni e deportati in diversi lager.
IMI, Internati Militari Italiani: li chiamavano così perché i nazisti non riconoscevano loro neppure lo status di prigionieri di guerra. Migliaia di altri carabinieri riuscirono a fuggire e diedero vita ad un Fronte Clandestino di Resistenza che cominciò a combattere per la liberazione dal nazismo e dal fascismo. Ma intanto, dopo quel 7 di ottobre, Roma non aveva più difese. Kappler aveva le mani libere: non correva più il rischio di trovarsi migliaia di carabinieri schierati a protezione dei loro concittadini. Per la razzia del Ghetto bastava solo attendere il momento più opportuno. La trappola scattò il 16 ottobre, un sabato, per gli ebrei giorno festivo dedicato alla preghiera. Erano tutti nelle loro case. Confidavano nei 50 chili d’oro pagati ai nazisti proprio per evitare la deportazione. Ma era un inganno.
I nazisti non erano uomini “tutti d’un pezzo”, come li mostrano certi film di Hollywood. Erano dei volgari assassini che per i loro crimini ricorrevano in continuazione agli inganni. Rimasti senza protezione, 1023 cittadini ebrei furono deportati. Ed era solo l’inizio. I rastrellamenti proseguirono in tutta Roma e nelle altre città occupate. Nei lager, prima di loro, erano arrivati i carabinieri. Ricevettero un’offerta: se avessero firmato per continuare a combattere al fianco dei nazisti, sarebbero stati liberati. Affrontarono due anni di sofferenze, stenti e morte ma non firmarono. Volontà e coraggio rimasti nella storia col nome di “Resistenza Silenziosa”. (Rivista San Francesco - clicca qui per scoprire come abbonarti)
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